Zombi 2: una questione politica

Zombi 2, approfondimento

Finalmente, un autore impossibile. Eterno presente dello ieri, e scarto delle grida di giubilo di allora. Un oblio, disgraziata dimenticanza, infamia del cinema, infamia del genere. Artigiano, terrorista, poète du macabre… Vedete? Impossibile perché indefinibile. Ora medico, ora sovvertitore dei grandi (lo svelamento dell’ossessione viscontiana, il furto al regista francese più grande di sempre), ora commedie, ora cantarelli, ora il giallo, ora Hitchcock, ora l’orrore. Se non fosse per la cine-malattia di un regista del Tennessee, per le sue riscoperte celebrative, odi sergiomartiniane, umbertolenziane, fernandodileoiane (eccetera eccetera) e l’attività di poche riviste specializzate, Lucio Fulci riposerebbe ora sotto il terreno umidiccio di un cimitero privo di lapidi su un’isola inaccessibile a largo dei Caraibi. Eppure, così non fu. Fulci è ora uno dei registi italiani più (ri)conosciuti all’estero, particolarmente in Francia e Giappone. Ma pare comunque ancora profondamente ingiusta la menomazione del nome dal corpo del cinema italiano nell’ora in cui il nuovo cinema italiano si stava facendo: critici borbottanti, snobismo tutto italico («nun se possono dà tre stelle a Furci»), registi smemorati, complessi edipici, una festa di occhi chiusi e accuse di fazione in fazione.

Eppure, lo squarcio nella carne, manifestazioni dall’aldilà, i supereroi, lo spirito neogotico del contemporaneo devono tutto al Dottore. Tarantino, Raimi, Del Toro, Ari Aster, Robert Eggers, persino Villeneuve sono solo una minima parte di un mainstream che non teme di celebrare l’underground che fu. Il cinema non è altro che un ciclo di citazioni, rifacimenti, remake; un film ha quindi come condizione essenziale di nascita quello di appartenere innanzitutto ad una storia, ad un passato. Niente è privo di ciò che è stato, ciò che precede inevitabilmente lascia tracce in ciò che segue. Non si può fare cinema senza essere stati profondamente segnati, senza aver subito una lacerazione da una visione, una sensazione, un ascolto. «Bisogna essere dei moderni», ma negare la tradizione è un processo irrealizzabile. Fulci è il passato che ritorna come i suoi zombi dall’oltretomba, la tradizione che bussa alla porta, lo spirito rievocato da Tarantino & Co, il cinema che si ricorda d’appartenere e non solo di generare. Passato-Presente. In una delle sue ultime apparizioni, il regista dirà: «Non bisogna dire “Io Lucio Fulci ero”, bensì “sono”. In un recente convegno lo speaker diceva “Lucio Fulci ha dato…” ed io “E darà ancora!”».

Ma certo, un presente si costruisce servendosi del suo passato, Hitchcock ispirò De Palma e Shyamalan e mille altri; Fellini riecheggia prepotentemente in Allen, Lynch, Sorrentino; Ozu e Keaton in Wes Anderson. Ma al di là dell’ovvio, al di là degli affratellamenti più noti, dei grandi che hanno fatto la storia, il caso di Fulci cosa vuole dirci? Si cerchi di metter da parte, per un attimo, la convinzione comune: la Storia fatta dai potenti, nei palazzi o sui campi di battaglia, la Storia che nega reietti, straccioni e subalterni. E si consideri quindi come una simile narrazione sia stata totalmente ribaltata, ad esempio, da storici come Howard Zinn, ricordando come la storia senza antistoricismo («coloro di cui la storia non tiene conto» direbbe Deleuze) sarebbe semplicemente una storia, intesa come racconto, mito ricreativo; e quanto quindi i vinti e i rifiutati abbiano avuto in realtà un enorme potere nello scuotere le coscienze di intere generazioni. Questa tendenza di mascheramento degli ultimi, di indifferenza dal sentore classista e il suo conseguente opposto, quindi rivalutazione e riscoperta delle vite dimenticate, è, appunto, un fatto indubbiamente familiare nella storia del cinema.

Zombi 2, l'approfondimento

Familiare all’autorialità extra uterina del cinema di serie b, feto misconosciuto del cinema dominante, dello strapotere delle grandi produzioni, rigetto delle grazie della “critica togata”. Autorialità che, muovendosi a tentoni tra tempi di ripresa ridicoli, budget imbarazzanti e “cagne” raccomandate da Craxi ha plasmato estetiche ed immaginari estremamente originali e riconoscibili, ma solo posteriormente, mediante cioè le opere dei loro mainstream children e di una fetta di critica “de-miopizzata”. E allora come si motiva una miopia così evidente della critica di allora? Forse volgere lo sguardo altrove sembrava più facile, forse le agitazioni di piombo bastavano ad alimentare le inquietudini («In quest’epoca di pazzi ci mancavano gli idioti dell’orrore»). E però, se il cinema non riassorbe i caratteri dissociativi della realtà, se non li rielabora con le logiche che solamente il cinema di genere potrebbe attuare, come si invita alla riflessione il pubblico? Se, tra i giovani, il disinteresse per il sociale e la smorfia di fronte alla parola “politica” portano ad un’atrofia del dibattito, non è forse necessaria una rielaborazione della realtà anche nei termini dell’intrattenimento?

L’errore dello snobismo intellettuale è stato evidentemente alimentato da una pigrizia interpretativa che impediva di andare oltre l’immagine esplicita. Si tratti di orrore o erotismo (di cui noi eravamo maestri, e questo è un fatto), l’esplicito sancisce subito un distacco. Il sangue disturba, il corpo allontana. Ma noi siamo sangue, noi siamo corpo, noi siamo viscere e siamo sperma, siamo carne e siamo liquidi. Forse fu proprio questo l’impedimento maggiore all’accoglienza positiva dell’élite: scoprire cioè, attraverso l’horror e l’erotico, ciò che realmente siamo, ciò che la critica borghese nascondeva sotto l’eleganza del cotone. Soprattutto, scoprirlo attraverso le opere di autori antiborghesi, ritenuti privi di dignità artistica, cantori brutali di eros e thanatos. La dicotomia che si instaurava tra critica (borghesia) e pubblico (proletario) delineava un panorama che andava oltre il filmico, al di là del cinema e delle sue storie. Era una questione politica, che metteva in luce una dialettica secolare. E di politica questi autori parlavano con l’audacia del clandestino, l’irriverenza dell’outsider, la crudeltà del poeta. Il borghese fuggiva l’immagine negandola, il popolo la accoglieva esaltandola.

La crudeltà bendava l’occhio del critico, ma ridestava quello dello spettatore. Nel caso di Fulci, un film come Zombi 2 (trailer), titolo scelto per cavalcare il successo di Dawn of the dead di Romero (in Italia distribuito con il titolo Zombi), rivela significati e letture che, stratificandosi a più livelli, rendono l’opera un bacino consistente di riflessioni storico-politiche. Nel volume Horror Italiano, Simone Venturini illustra come il film di Fulci sfidi, servendosene, l’evidenza dell’immagine per raccontare questioni che spaziano dal colonialismo alla condizione postmoderna. Lo stesso Fulci, nell’intervista di Antonietta De Lillo La notte americana del dottor Lucio Fulci, si riferirà all’isola del film come ad «un’isola dove nascono gli zombie. Dove nasce il potere», in cui il cimitero dei conquistadores e l’edificio religioso assurgono a enunciati significanti del discorso. Citando il saggio di Ian Olney, Euro Horror: Classic European Horror Cinema in Contemporary American Culture, emerge come la figura dello zombie sia quindi l’espressione più pura della rabbia postcoloniale, «un mostro la cui virulenta contagiosità minaccia la distruzione della cultura occidentale imperialista che lo ha prodotto».

La condizione di alterità mostruosa incarnata dallo zombie (sapientemente edificata dallo sguardo colonialista) ci viene mostrata nella scena in cui i protagonisti bianchi entrano nella capanna del dottor Menard cogliendo gli zombi nell’atto antropofago. Osserviamo lo sciacallaggio zombifero attraverso la soggettiva dei protagonisti, scelta tecnica che rivela come il cannibalismo e le pratiche sacrificali siano perciò i prodotti dello sguardo occidentale. Sguardo reificato, dunque, per l’intero film, ma che raggiungerà il suo apice semiotico nella strage finale: evocando i massacri dei popoli colonizzatori, Fulci ci mostra il martirio inconsapevole cui gli zombi andranno incontro, immolandosi come le popolazioni oppresse, vittime del potere bianco. Circa la funzione che lo zombi assume nel film di Fulci, dunque, Venturini oppone due diverse interpretazioni: l’una del già citato Olney, l’altra di Simone Brioni nel suo Zombies and the Post-colonial Italian Unconscious: Lucio Fulci’s “Zombi 2”. Se per Olney le soggettive degli zombie rimandano ad uno spazio di liberazione dallo sguardo occidentale, per Brioni la questione di tutto il film ruota attorno al «barometro delle ansie italiane rispetto al ritorno del passato coloniale, e alle paure della classe media occidentale a riguardo dei propri privilegi, minacciati dalle sfide della postcolonialità».

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Di fatto, nel film sono evidenti le divisioni razziali manifestate attraverso la subordinazione degli assistenti neri ai dottori bianchi, nonché di genere (costante dei thriller e degli horror all’italiana, in cui la donna è sempre oggetto desiderato/temuto dello sguardo deviato e deviante del maschio). Ancora, sintetizzando la posizione di Olney circa lo statuto del colore bianco nel film di Antonio Margheriti (altro grande dimenticato) Apocalypse domani con le teorie di Richard Dyer nel suo White, Venturini riflette sul medesimo tema nell’opera di Fulci. Evocando le figure della bianchezza presenti nel film, l’autore ne svela l’ossessione della rappresentazione: dagli zombi imbiancati dal make-up ai sudari dell’ospedale; dalle vesti dei medici ai lenzuoli dei lettini ospedalieri; da veli e tendaggi sino a fosse comuni, strade e imbarcazioni. Emerge dunque una stretta e perversa relazione tra bianchezza e morte, tra gli enunciati della whiteness e la loro significazione mortifera, che Richard Dyer individua come tendenza accettata nell’horror occidentale («l’horror offre uno spazio culturale che rende sopportabile per i bianchi l’esplorazione dell’associazione della bianchezza con la morte») e che quindi identificherebbe la cultura bianca come cultura portatrice di morte.

Di contro, Brioni legge nella blackness dell’opera fulciana evidenze di violenza, morte e mostruosità che quindi si oppongo diametralmente alle teorie sopra citate. Al di là, comunque, delle prospettive opposte, il film di Fulci si integrerebbe perfettamente nelle interpretazioni in chiave imperialista raggiungendo, nel finale, un ribaltamento significativo per ciò che concerne l’atavica paura del colonizzatore bianco: da bianchi, figli della cultura occidentale del progresso e della metropoli, i protagonisti si trovano ora sperduti a largo dell’isola di Matul (negazione dell’idea di colonia perché terra di nessuno) con uno zombie rinchiuso nella stiva della barca. Lo spazio subliminale rappresentato dalla stiva in cui i protagonisti hanno rinchiuso lo zombie (precedentemente loro alleato, ora manifestazione famelica che vuole liberarsi), alluderebbe allora al tentativo di occultamento della cultura imperialista di confinare la propria responsabilità in spazi reconditi della memoria; di negare gli effetti del dominio bianco, cancellandone i superstiti; di fuggire senza lasciare tracce.

L’orrore fulciano dimostra come è quindi non solo possibile, ma necessario veicolare discorsi d’impegno sociale attraverso l’utilizzo del genere, democratizzando il dibattito e rendendolo più crudo, viscerale. Se la lotta passa attraverso il sangue, perché negare la crudeltà? Se la crudeltà esplicita rimanda ad un’altra più latente, subdola ma non meno scandalosa perché chiudere gli occhi? Non c’è alcuna gratuità, né alcun gusto grand guignolesco, ma un’esigenza di coniugare il cinema popolare (con tutte le sue violenze, le miserie, i parossismi) ad uno stimolo più sottile. Stimolo che germina, seppur in silenzio, e tormenta e interroga e spesso confonde, senza per forza esigere una risposta. Il fanatismo dà risposte, negando lo scambio. L’arte, per quanto retorico possa sembrarci, aiuta a porci le giuste domande. Si tratta di alimentare il dibattito, di sfidare l’evidenza, di mettere in dubbio sé stessi e le nostre convinzioni, le appartenenze e le convenienze, interrogandoci costantemente attraverso la provocazione, gli estremi, la crudeltà. Si tratta, come sempre in Fulci, di una questione politica.


BIBLIOGRAFIA

Simone Venturini, Horror italiano, Donzelli Editore

FILMOGRAFIA

Antonietta De Lillo, La notte americana del Dottor Fulci

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