Woody Allen è considerato da molti critici cinematografici come uno dei massimi interpreti- involontari- dell’identità ebraica, soprattutto negli Stati Uniti a cavallo tra la nuova ondata di consapevolezza degli anni ’60 e il nichilismo del nuovo millennio. Con le sue pellicole ha cercato di decifrare l’insondabile caos dell’animo umano provando a trovare una risposta plausibile alla totale assenza di significato dell’esistenza; e proprio perché si è sempre dimostrato abile nel toccare corde universali e, in particolar modo, l’uomo moderno newyorkese e nevrotico, non possiamo parlare di una natura spiccatamente ebraica della sua opera: i suoi personaggi sono ebrei perché, come ha dichiarato il regista in numerose interviste, lo è lui stesso.[1]
Il cinema di Allen è popolato soprattutto di shlèmie[2]l e lonely guys, figure borderline di individui vessati dalla vita e dalla cattiva sorte, soggetti che preferiscono vivere mantenendo sempre un basso profilo, poiché sono costantemente pronti ad incassare gli inesorabili tiri mancini propinati dall’esistenza. I protagonisti che si muovono nei suoi paesaggi artificiali e negli scorci cittadini delle grandi metropoli sono preda dei loro demoni interiori, lottano con i loro tabù secolari- e secolarizzati- in un mondo nuovo e rutilante nel quale cercano di integrarsi ad ogni costo, con qualunque mezzo. Il dramma dell’accettazione passa attraverso tutti i film di Allen, sia i primi incentrati su una comicità più schietta che le commedie sofisticate, quanto i drammi d’interni simili alle opere del regista svedese Ingmar Bergman; la maschera tradizionale dello shlèmiel si colora di nuove tonalità e adatta la propria forma specchiandosi nelle contraddizioni del secolo breve. Il suo unico risultato: produrre il prototipo ideale di un individuo dipendente dalla psicanalisi che cerca, in questo modo, di trovare delle risposte alle proprie domande sul senso della vita provando a placare quell’atavico lamento di matrice biblica (ricorda, infatti, da vicino le suppliche di Giobbe) connaturato ormai alla sua identità. In un mondo privo di senso anche i grandi pilastri della società (soprattutto amore e matrimonio) perdono il loro significato originario e spingono Allen a pronunciare una verità fondamentale e allo stesso tempo crudele per via del suo cinico pragmatismo:
«Io credo nel sesso e nel decesso».[3]
Sesso e morte sembrano le uniche logiche, le colonne portanti che strutturano il moderno impero della mente delle grandi metropoli, dominate dai nuovi idoli come sesso, denaro e potere.
In uno dei suoi film della maturità, quello che per molti critici è considerato il suo miglior prodotto audiovisivo sia per il messaggio sotteso che per la perizia tecnica messa in atto, Allen tende proprio a cercare di decifrare questo complesso dell’accettazione e dell’assimilazione ad ogni costo raccontando la storia di un everyman qualunque, di un semplice impiegato newyorkese in grado di assumere i comportamenti e le fattezze di chiunque altro; un dono o una condanna, una capacità di camaleontismo estremo che lo spinge a rifiutare la propria vera identità pur di sentirsi accettato ad ogni costo dagli altri, dalla massa. La pellicola è, appunto, Zelig (1983) termine ripreso dalla lingua yiddish e che significa “benedetto”. Leonard Zelig è l’uomo camaleonte per eccellenza, il trasformista in crisi d’identità alla continua ricerca del proprio Io autentico o forse delle mille maschere e degli innumerevoli travestimenti volti a camuffare del tutto la presenza, nascosta sul fondo, di un residuo della propria identità originaria, un ultimo rigurgito estremo della voce dei propri Padri.
Per costruire il personaggio di Zelig Allen si ispira a un noto impostore ebreo degli anni ‘20, tale Stephen Jacob Weinberg, uomo in grado di spacciarsi per innumerevoli personaggi totalmente diversi tra loro, ma senza cambiare il proprio aspetto fisico. Leonard Zelig è- palesemente- ebreo, si dichiara figlio di un attore del teatro yiddish e appena può sfodera un sottile umorismo corrosivo che ricorda la migliori freddure di Groucho Marx.[4] Il suo desiderio in assoluto è quello di essere accettato ad ogni costo, è per questo che la prima volta che si trova a mentire è quando gli chiedono se ha letto Moby Dick: romanzo simbolo del Nuovo Mondo e dei suoi spettri, cercando di adattarsi al pensiero comune. Solo in punto di morte ammetterà- finalmente- di averne letto solo le prime pagine. In un altro momento del film l’uomo camaleonte dichiara «è più sicuro essere come gli altri. Voglio essere benvoluto» e poi «Faccio veramente di tutto per integrarmi» e infine «Tutta la mia vita è stata una menzogna» non è un caso, forse, che la dottoressa Fletcher riesca finalmente a trovare un modo per tirare fuori la vera personalità di Zelig solo quando si spingerà a mettere in dubbio la propria, rivelando un Io fragile ed insicuro che manda, letteralmente, la personalità di Zelig in frantumi, che si rivela molto più “banale” e low profile delle multiformi identità che tendeva ad assumere.
Il film fornisce numerose chiavi di lettura, alcune strettamente legate al discorso dell’identità, in base alle quali Leonard Zelig è solo un uomo pieno di paure spaventato nel mostrare al mondo il suo vero Io. Molto spesso personalità deboli trovano conforto e accoglienza tali da sedare il loro atavico senso di disagio verso la società solo all’interno di grandi movimenti di massa, come lo sono stati nel ‘900 fascismo, nazismo e stalinismo. La pellicola diventa anche un modo, per il piccolo regista ebreo newyorkese, di affermare una propria idea politica come non aveva mai fatto prima. La malattia di Zelig è un male che appartiene a ciascuno di noi. Nel film è portata all’estremo. Ovvero tutto ciò che può portare al conformismo e infine al fascismo […][5] diventa quasi una sorta di ammonimento contro i dittatori e il pericolo che una cultura di massa controllata, pianificata, di regime può portare come conseguenza sulla popolazione. Non è un caso se, in una scena, vediamo Zelig rifugiatosi nella Germania nazista che assiste, incredulo ed integrato, ad un discorso di Hitler senza rendersene nemmeno conto, prima di tornare in sé alla vista di Eudora.
Zelig per vivere e per esistere in quanto essere umano ha disperatamente bisogno di amore: sia esso quello illusorio e fallace fornito dai media e dalle folle adoranti che reclamano i suo gadget, o quello puro e disinteressato della dottoressa Fletcher che prima vede nell’ometto un interessante caso clinico che potrebbe portarla alla ribalta, e in seguito addirittura un compagno di vita. Ma alla fine non fu l’approvazione dei più bensì l’amore di una singola donna a cambiare la sua vita. L’amore di una shiksa[6] bianca e gentile è una molla propulsiva fondamentale, ma non bisogna leggerlo nella prospettiva di un classico happy ending: nella realtà Zelig non sarebbe mai guarito dalla sua patologia, ma visto che siamo in un piano di pura finzione e «troppa realtà non è quello che il pubblico vuole»,[7] è possibile che possa trovare un’ancora di salvezza nell’amore di una donna e nella possibilità di aprirsi all’esperienza e alle relazioni tra il proprio Io e l’Altro. L’amore salvifico, per Zelig, potrebbe trattarsi di una forma costante di devozione, sentimento però ben difficile da preservare per i personaggi alleniani. È il vero amore che libera entrambi gli individui coinvolti con le loro ingombranti identità: esso solo può permettere all’uomo di comprendere appieno il proprio Io, mentre l’avventura lo condanna soltanto a ridurre per un po’ la sua ansia atavica.
Ovviamente la storia umana di Zelig è la storia di milioni di immigrati ebrei arrivati in America con la speranza di ricostruire finalmente qualcosa e di trovare il loro piccolo posto discreto nel mondo integrandosi nell’ampio tessuto sociale e cercando di garantirsi, in ogni modo, quel diritto alla felicità sancito perfino dalla costituzione statunitense. Allen affida alla voce del critico letterario Irving Howe tale confessione. Solo che gli ebrei di cui parla Howe sono quelli degli anni ’70/’80, non quelli dei “ruggenti anni venti” mostrati nel film: se Allen avesse scelto di calare la storia di Leonard Zelig, l’uomo camaleonte, nel presente, avrebbe potuto affrontare, in modo più risoluto e approfondito, il tema della confusione identitaria che già aveva tentato di analizzare in altri film. La storia di un uomo che voleva essere qualcuno, ma che in realtà era uno, nessuno e centomila, è anacronistica per certi versi e riflette il bisogno impellente di intere generazioni alla ricerca di un delicato equilibrio tra un’identità secolare, frutto delle leggi dei padri e della Torah, e l’accettazione completa dell’American Way of Life.
- [1] Intervista rilasciata alla giornalista Natalie Gittelson nel 1979 per il “New York Times Magazine” citata in Guido Fink, Non Solo Woody Allen, cit., p. 254
- [2] Si dice che il suo nome derivi dal biblico Shlumiel, (Numeri, 2) nome proprio del figlio di un leader della tribù di Simeone: mentre gli altri generali di Sion vincevano sul campo di battaglia, Shlumiel era un eterno perdente. Lo shlèmiel è l’antieroe per eccellenza, colui che ingaggia una lotta titanica verso l’esistenza grazie ad armi come la parola, le supposizioni e naturalmente l’ironia (spesso crudele, cinica e autodelatoria) per vincere la sua sfida nei confronti delle proprie contraddizioni, del suo destino ma soprattutto contro se stesso. Nel gergo può essere considerato un vero e proprio “sfigato”, un inetto e un perdente per il quale però si prova un’innata compassione, una vittima della sorte e degli eventi; usa un’autoironia corrosiva per difendersi e per mostrare la propria visione disincantata nei confronti del mondo e della realtà. È caratterizzato da un atteggiamento goffo e maldestro e proprio per colpa di tale comportamenti tende ad essere considerato come un emarginato; è un credulone dotato di un candore quasi infantile, un disadattato incapace di trovare una propria collocazione specifica nella vita o un proprio posto in precario equilibrio all’interno della società. Questa figura incarna la condizione atavica dell’uomo abbandonato da tutto e tutti ma non dall’Altissimo, perché in realtà egli è privo di colpe, è un’anima candida e pia, un fool (di Dio) nel senso shakespeariano del termine. Lo shlèmiel è piuttosto un catalizzatore di energia negativa, un soggetto che coinvolge gli altri nel ciclone di sventurati eventi che a malapena riesce a gestire non senza incontrare delle difficoltà. La tipologia di umorismo che usa, al contrario del suo modus vivendi, è crudelmente e cinicamente razionale, e viene usato come un’arma per riscattare la propria condizione di fallito che tanto fascino ha esercitato sulla cultura americana degli anni ’50 rendendo però rassicurante e accettabile tale figura tanto da ascriverla in un immaginario popolare.
- [3] Citazione tratta dalla scena finale del film Il Dormiglione (Sleeper, 1973)
- [4] “Mio fratello mi picchiava, mia sorella picchiava mio fratello, mio padre picchiava mia sorella, mio fratello e me, mia madre picchiava mio padre e mia sorella e me e mio fratello che mi picchiava, i vicini picchiavano tutta la famiglia, quelli dell’altro isolato picchiavano i vicini e la nostra famiglia…” tradotto dalla sceneggiatura originale contenuta in Three Films of Woody Allen, Random House, Inc., New York
- [5] Intervista al “The New York Times” del 1983 in Elio Girlanda e Annamaria Tella, Woody Allen, Il Castoro Milano, 1995
- [6] Donna bianca, gentile (non ebrea) che rientra appieno nei canoni WASP (White Anglo-Saxon Protestant)
- [7] Citazione tratta da Fabrizio Borin, Woody Allen, Gremese, Roma 1997 in Marco Pelliccioli Un Dandy a teatro- Oscar Wilde e Woody Allen Dalla Letteratura al Cinema al Teatro per svelare e ricomporre le Maschere della Modernità Firenze Atheneum, Firenze 2008 p. 20