Xavier Dolan è uno dei maggiori esponenti dell’arte cinematografica contemporanea e si posiziona tra le figure più promettenti del cinema del futuro. La filmografia di questo artista rappresenta un repertorio cinematografico di enorme valore. L’articolo che segue nasce con lo scopo di rendere noto il cinema poetico di Dolan a chi non ne fosse ancora a conoscenza e la speranza di riuscire a suggerirne un approccio ed una prospettiva di sguardo.
Il regista, nato in Canada nel 1989, scrive la sua prima sceneggiatura alla giovane età di sedici anni. Si tratta dell’autobiografico J’ai tué ma mère (qui il trailer), il quale sarà anche il suo esordio cinematografico, prodotto nel 2009, a tre anni di distanza dalla sua stesura. Quell’anno vincerà tre premi al Festival di Cannes e diversi riconoscimenti internazionali. Basterà questo perché nel panorama mediatico Dolan venga considerato l’enfant prodige del cinema canadese.
Dolan è un’artista cinematografico a tutto tondo. Per molti dei suoi film, J’ai tué ma mère compreso, l’autore è anche attore e svolge sia l’una che l’altra mansione con estrema abilità. Tale polivalenza gli garantisce la massima espressione della sua soggettività, della quale tuttavia sono già sature tutte le sue sceneggiature. Collocabile all’interno di un filone di cinema indipendente, Dolan inizia la sua carriera autoproducendosi e montando da solo i suoi lavori. Dichiaratamente specchio della sua personalità e del suo essere, i film del giovane regista calcano spesso su temi ricorrenti: l’emarginazione, l’omosessualità sofferta a causa dei condizionamenti sociali, la nemesi degli esseri umani con la propria interiorità, il conflitto amoroso ed il rapporto con la figura materna.
J’ai tué ma mère è il racconto di un comune conflitto interiore adolescenziale, quello scatenato nella turbata anima di un sedicenne che vive con sofferenza il rapporto madre-figlio. Hubert (Xavier Dolan), figlio di genitori divorziati, vive con la madre (Anne Dorval) per la quale nutre un sentimento di odio controverso. Il susseguirsi degli eventi si struttura in uno schema semplice e lineare. Hubert coltiva in casa sentimenti di rancore nei confronti della figura materna, con la quale intrattiene una relazione di natura edipica e della quale detesta ogni atteggiamento. Le tiene nascosta la sua omosessualità, non le parla del suo fidanzato. Litiga spesso con lei e le urla in faccia il suo odio. Alle volte cerca di conquistare la sua benevolenza, modificando i suoi cattivi atteggiamenti al fine di conquistare il consenso del genitore per ottenere permessi. Hubert in fondo sa che non si può non amare la propria madre, ma sente di odiarla e crede di essere a sua volta odiato da lei.
La sua controparte, la madre Chantal, è un genitore spesso distratto e noncurante del turbinio emotivo vissuto dal figlio adolescente. Costretta a crescere Hubert da sola, divorziata da un uomo che non sa essere padre, si configura come una figura femminile controversa. Il personaggio di Chantal potrebbe spesso essere sottoposto ad un giudizio spettatoriale negativo a causa di certe scelte genitoriali, ma espia le sue colpe attraverso il riconoscimento della sua identità di donna. Da una madre ci si aspetta un’innata propensione all’emarginazione dei desideri personali a vantaggio di un devoto ascolto nei confronti delle esigenze di un figlio. Ma la maternità non sempre è una qualità insita nel proprio essere. All’origine di una madre c’è una donna, e se alla prima la società non perdona mancanze, alla seconda non si può infliggere la pena di non avere il diritto di commettere errori.
J’ai tué ma mère gode della presenza di segmenti surreali che offrono un’immagine ai sentimenti, ai pensieri e alle intenzioni trattenute del protagonista. Inserti extradiegetici interrompono la narrazione per dare voce all’interiorità di Hubert. Così, se la rabbia viene espressa attraverso l’immagine dell’esplosione di una vetrina, il senso di colpa nei confronti della madre viene visivamente rappresentato dalla figura della donna nelle vesti di una Vergine Maria sanguinante. L’inserimento di immagini oniriche si dimostra indubbiamente un’efficace scelta registica, ma sarebbe limitativo non evidenziare con quale eccellenza Dolan svolga questo lavoro. Il giovane regista è un maestro nella creazione di una dimensione cinematografica onirica. Non scade mai in banalità visive, colpisce lo spettatore scagliandogli addosso un mondo immaginifico composto dalle smanie più intime e profonde della mente umana.
La fotografia in J’ai tué ma mère e nei film successivi dell’autore, enfatizza gli aspetti narrativi e le relazioni tra i personaggi. Così, un campo-controcampo di Hubert e sua madre si caratterizza attraverso la decentralizzazione dei volti di ognuno, che simboleggia la lontananza emotiva dei due. Dolan sviluppa un linguaggio filmico composto da primi e primissimi piani, scelta che collabora all’indagine introspettiva dei personaggi che caratterizza tutto il suo cinema.
L’arte, in ogni sua forma, è un elemento centrale del film. Inserti letterari, musicali e figurativi svolgono il ruolo concettuale di enunciare emozioni e pensieri del protagonista. In J’ai tué ma mère ci si imbatte in una sequenza rappresentativa di un aspetto centrale della poetica del regista. Si tratta di un episodio di action painting in cui Hubert ed il suo fidanzato dipingono una parete attraverso il dripping. Questa scena è accompagnata dalla significativa canzone Noir Dèsir del gruppo francese Vive Le Fête e condensa una molteplicità di elementi caratteristici del cinema di Dolan: l’alternanza tra slow motion e time laps, l’uso acceso dei colori e la centralità visiva del rapporto tra la figura umana e l’ambiente. Ma, più di tutto, è proprio l’action painting ad incarnare la pura essenza della sua estetica registica. Questa tecnica pittorica, anche conosciuta come espressionismo astratto, domina la storia dell’arte moderna grazie al suo massimo esponente: Jackson Pollock. Con questi, Dolan condivide molti elementi poetici, seppur elaborati attraverso due forme artistiche diverse. Vale dunque la pena soffermarsi sulla figura del pittore per giungere all’appropriazione della poetica del regista.
Jackson Pollock fu il principale rappresentante della tecnica artistica che può essere definita pittura in movimento. Si tratta di un modo di dipingere che consiste nel lanciare o far sgocciolare la pittura sulla tela, ottenendo un’opera spontanea, espressione di un inconscio irrazionale. Vengono fuori dei quadri psichici caratterizzati dalla violenza dei colori. In particolare Pollock utilizzava una gamma cromatica limitata, attingendo in maniera preponderante ai colori primari. Attraverso questa tecnica, coinvolgente e sciamanica, viene dipinta su tela la dinamicità dell’anima dell’artista, al servizio della quale si pone il corpo dello stesso.
Lungi dall’essere una speculazione meramente teorica sulla poetica del pittore, l’analisi del modus operandi e dei risultati espressivi di Pollock conviene ad un’analisi della regia di Dolan. Infatti, nel cinema dell’autore canadese non solo è possibile riconoscere un’espressione astratta dell’inconscio dei suoi personaggi, ma si può ravvisare un’estetica pollockiana anche nelle scelte visive e poetiche effettuate in molti suoi film.
In J’ai tué ma mère, così come in altre sue opere, le immagini sono visivamente cariche di cromatismi pittorici ed i colori primari giocano un ruolo centrale. Inoltre, tutta la sua filmografia condivide un’affascinante caratteristica con il complesso operistico di Pollock. I quadri di quest’ultimo, quasi per definizione, presentano sempre una pienezza visiva. Non vi è mai nessun segmento della tela lasciato vuoto. Il colore impregna la totalità dello spazio a disposizione. Allo stesso modo, non vi è segmento filmico in Dolan che si possa definire un punto vuoto, o in termini più “cinematografici” un momento morto. Ogni singola immagine non rappresenta solo se stessa ma anela ad un significato altro. Ogni inquadratura aggiunge qualcosa al contenuto concettuale dell’intero film. Ciò che naturalmente differenzia le due poetiche, del pittore e del regista, è la contingenza legata alla creazione. Ovvero, alla fine del lavoro i colori di Pollock risultano sulla tela attraverso una struttura casuale, si potrebbe chiamare un’anti-struttura. In Dolan, ovviamente, viene meno la casualità compositiva che si tramuta in un montaggio dettagliatamente studiato.
A livello concettuale, il cinema dolaniano è sempre l’espressione delle pulsioni inconsce del regista, incarnate nei copri e desideri dei suoi personaggi. L’irrazionalità psichica presente in questo cinema si caratterizza come un inconscio consapevole. Tale terminologia può sembrare ossimorica, ed invece è proprio quanto accade. Nelle sceneggiature di Dolan, quasi sempre di tendenza autobiografica, pare che il delirio interiore dei personaggi, che è dapprima stato quello del regista, sia osservato dall’autore da un punto di vista esterno, attraverso il quale mette in ordine i frammenti irrazionali della sua anima.
Per una comprensione efficace di questo concetto, basterà ricordare che Dolan scrisse J’ai tué ma mère a soli sedici anni e lo girò a diciannove. Dunque, nel pieno della sua adolescenza il futuro regista è riuscito a comporre in maniera consapevole un quadro analitico degli impulsi psichici e irrazionali che scatenano la violenza interiore ed incontrollabile di tutti i giovani della sua età. Questo dato risulta sorprendente. È incredibile la maturità con la quale Dolan abbia scritto questa intima sceneggiatura che scardina la sua stessa psiche. A soli sedici anni mette in discussione le sue segrete emozioni consapevole della loro fugacità.
La tematica adolescenziale, seppur filtrata da una profonda soggettività dell’autore, entra in una dimensione oggettiva grazie alla naturalezza e la realisticità delle turbe giovanili rappresentate. In tal modo, la quasi interezza degli spettatori tende a riconoscere in quelle stesse emozioni il passato della propria interiorità. J’ai tué ma mère ha il potere di sottoporre lo spettatore ad una privata analisi di coscienza che a volte fa sorridere di se stessi e a volte mette in imbarazzo. Il film da forma a dei sentimenti universali, anche quando distruttivi, capaci di penetrare nell’intimità di chi ne fruisce.
Non è azzardato affermare che il cinema di Dolan possegga parte di quell’aura di cui Walter Benjamin quasi un secolo fa reclamava la perdita. Ogni inquadratura dolaniana è caratterizzata da una forte carica spirituale. Le immagini dei suoi film, spesso prolungate nel tempo, necessitano d’esser contemplate, riconquistando quel valore auratico proprio dell’arte figurativa. Un valore, questo, estraneo a gran parte del cinema contemporaneo, che spesso si dimostra in preda all’ansia di strutturare un racconto efficace attraverso l’eccesso visivo e narrativo. In Dolan narrazione e sceneggiatura sono quasi sempre ricche di follia e delirio, ma non si formano attraverso l’accumulo di fatti e dati ma mediante il potere delle immagini, capaci di esplorare e rivelare emozioni e sentimenti.
La funzione del cinema di Dolan può essere accomunata a quella dell’arte figurativa o di un’opera scultorea. Parliamo di arte figurativa perché, come accade per un quadro, la staticità di certe immagini, resa attraverso il reiterato slow-motion, richiede un’osservazione prolungata nel tempo e lascia allo spettatore lo spazio per indagare le proprie emozioni. Dolan non accumula colpi di scena per generare sensazioni forti ma inevitabilmente labili. Colpisce invece gli aspetti più profondi della coscienza umana. Le tematiche affrontate sono essenzialmente individuali ma allo stesso tempo condivisibili, contemporaneamente personali ed universali.
Funziona come un’opera scultorea perché in ognuno dei film del prodigioso regista lo spettatore può scegliere da che punto di vista giudicare l’azione. Le storie di Dolan sono sempre cariche di dialettica, incarnata dai personaggi perennemente in conflitto tra loro (conflitti quotidiani o straordinari, intimi e particolari o collettivi). La narrazione è soggettiva ma il racconto è oggettivo. L’istanza narrante non si schiera mai dalla parte dell’uno o dell’altro personaggio, ma espone le controversie interiori e i motivi d’ognuno. Lascia che lo spettatore si identifichi a turno con ciascuno di loro, per poi accorgersi che non vi è un lato giusto ed uno sbagliato, ma solo il complesso oggettivo della soggettività di ogni persona. Nello straordinario cinema di Dolan entrano in conflitto le emozioni mosse dai più primordiali e puri sentimenti umani, che si nutrono di motivi personali ineccepibili e a volte frutto della parte inconscia del sè.