Per noi cinefili, studiosi o semplici conoscitori della settima arte, il contatto con la pop music non può che rimandarci a quella affermazione di Fanny Ardant in La signora della porta accanto di François Truffaut: «Ascolto solo canzoni. Perché dicono la verità. Più sono stupide e più sono vere. E poi non sono stupide…». Un’affermazione che oggi, soprattutto qui in Italia, forse perde la sua validità (anzi, sicuramente, nella maggior parte dei casi), ma che ritorna costantemente durante la visione di Wham! (trailer). Il documentario, firmato da Chris Smith, è disponibile su Netflix dal 5 luglio.
Gli Wham!, due amici (Georgios Kyriacos Panayiotou, successivamente conosciuto come George Michael, e Andrew Ridgeley), prima che membri di una delle più importanti band degli anni Ottanta. La loro incidenza sulla cultura popolare – volendo tracciare un collegamento che giunge fino ad oggi – risuona ancora, e non poco, sui social (Careless Whisper, Last Christmas, ma recentemente anche Wake Me Up Before You Go-Go in salsa horror e melanconica). I due si conoscono a scuola; sul finire degli anni Settanta l’esperienza dei The Executive fa capire quanto il punk o lo ska non faccia al caso loro. Ma il nuovo decennio, la disoccupazione di Andrew, i club londinesi dove vanno a ballare (e dove si grida ”Wham!”), danno nuova vita ai due.
Per quanto si affermeranno sotto un’altra luce – portatori di un’immagine spensierata ed edonista della vita – è con il brano socialmente impegnato Wham! Rap che corteggiano la Top 100 nazionale. Ed è qui che il racconto nel documentario di Smith si fa interessante. La band nasce da una spinta di Andrew, personalità forte del duo, che spingerà “Yog” (soprannome affibbiato dal primo a Georgios) a lasciar stare le costrizioni del padre e ad esprimersi con la musica. Il loro rapporto è tra i dischi che si consolida, tra Goodbye Yellow Brick Road e Ziggy Stardust and the Spiders from Mars; tra la voglia di parlare di ciò che li circondasse e di scrivere hit.
L’intento di Wham! è di dialogare con la cronaca del tempo, con tutte quelle voci di una stampa che da un certo momento in poi hanno solo voluto considerare Ridgeley una spalla, lo sciupafemmine del duo che campava di rendita sulle spalle del talentuoso George Michael. Lo fa e ci riesce dignitosamente attraverso un montaggio tutto d’archivio, che simula la lettura di uno dei tanti scrapbook conservati dalla madre di Andrew (riproducendoli digitalmente), e le voci dei due protagonisti. Attraverso questa serie di perni, Smith scava e pone al centro soprattutto l’interiorità di George, profondamente tormentato dall’ambizione di consolidare il suo successo attraverso il suo talento di cantautore-produttore (raggiunge quattro primi posti in un anno) e dalla difficoltà nel riuscire a dichiarare pubblicamente la sua omosessualità.
Dispiegare quella che potremmo definire la “trama principale” include la narrazione di un’epoca, che forse potrebbe anche aiutarci ad approfondire quanto detto sopra, ovvero della fama social che la band detiene tutt’oggi (quantomeno a sapere da dove proviene). L’Inghilterra thatcheriana descritta in Wham! mette la musica al centro di tutto: il contatto con le etichette (che, per inciso, non portavano a floridi guadagni proprio come oggi con lo streaming), una critica “leggermente” pregiudizievole, la promozione attraverso il prime time televisivo e le radio o anche l’unione per supportare cause sociali (Band Aid). Tutto non può che confluire in un enorme precedente che oggi ancora ha la propria incidenza su come la musica viene vissuta e diffusa oltre la Manica e, generalmente, oltre i nostri confini nazionali.
La band, pur disprezzata dalla critica interessata solo a fenomeni “più seri”, rappresentata in questo lato da Michael, ha sempre risposto con la musica. Con composizioni, sì, estremamente figlie del loro tempo ma permeate di un senso della professionalità che, ad un ascolto più attento, non possono di certo passare come superficiali (principalmente per il modo in cui la formula pop si incontra con altri genere come il funk, il rap, o come riesce ad includere strumenti ad essa estranei). E a volte, la riuscita di un progetto, che sia musicale o anche cinematografico, è qui che gioca la sua sfida decisiva. Nel saper restare coerenti. È proprio questo che, sul finale del film e sulle immagini del loro concerto d’addio a Wembley, Andrew ci confessa: «Gli Wham! non sarebbero mai stati cinquantenni, o qualcosa di diverso da quella rappresentazione pura di noi da giovani». Ecco, forse tenere a mente queste parole, male non potrà mai fare.