Viviamo nel tempo, non nella materia. We Live in Time (trailer), il nuovo film di John Crowley presentato in anteprima nazionale alla Festa del Cinema di Roma ci racconta proprio questo.
La storia raccontata è quella di Tobias (Andrew Garfield) e Almut (Florence Pugh) e del loro amore. Lei è una talentuosa chef, lui un dipendente di una multinazionale. Dieci anni della loro vita ci vengono mostrati attraverso un montaggio non cronologicamente lineare, come piccole pillole, highlights di un amore.Non aspettatevi una commedia romantica su cui sognare. La struttura alla (500) giorni insieme viene qui sfruttata per raccontarci un dramma strappa lacrime, la narrazione della malattia di Almut. La chimica tra i due è innegabile. L’intesa di questa coppia sullo schermo è molto naturale, attraverso i momenti di tenerezza capiamo sempre esattamente in che momento ci troviamo, senza il bisogno di didascalie.
La struttura è ben architettata, la regia pulita e la sceneggiatura funziona come una macchina perfetta; eppure qualcosa non quadra. Qual è il senso di raccontare questa storia così classica nel 2024? Si potrebbe parlare di catarsi, un modo per lo spettatore di liberare le lacrime trattenute nel dolore. Il cinema però non è uno psicologo, non deve essere. Non si può pensare di affidare la propria salute mentale ad uno schermo.
Se invece stiamo cercando soluzioni e risposte il luogo è doppiamente sbagliato. We Live in Time ci propone una visione distorta e romanticizzata all’estremo del dolore. Le scelte dei personaggi spesso si ritrovano ad essere follie attuate solo per arrivare al finale desiderato, quello che ti fa finire il pacchetto di fazzoletti. È inoltre difficile empatizzare con Almut per via di chi è lei. Tra le cuoche migliori di Inghilterra, pattinatrice sul ghiaccio professionista, simpatica, attraente, amorevole. Questa persona semplicemente non esiste, o quantomeno non siamo noi.
Il film inoltre sembra volere inserire inspiegabilmente un pizzico di queerness. Almut è bisessuale, ma ciò non solo è totalmente irrilevante, ma nemmeno aggiunge strati di complessità alla sua identità. Lo scopriamo di sfuggita perché viene menzionata una ex fidanzata. Ci viene ricordato in un secondo momento in una battuta sull’etero normatività. Finisce così il discorso, svanisce così la mancata possibilità di costruire un qualcosa di interessante ad un racconto visto, rivisto e che speriamo di non rivedere più (almeno nella sua forma così banale e classica).
Torniamo quindi al perché di questo film. We Live in Time è il feticcio di chi vuole piangere guardando belle facce con belle vite nelle loro belle case. Un dramma evitabile che gioca coi nostri sentimenti per far pensare allo spettatore di aver assistito ad una bella opera solo perché si ha pianto. La realtà dei fatti è che tutto ciò è l’equivalente di un video di teneri cagnolini su Instragram, ma nessuno si azzarderebbe a chiamare capolavoro un Labrador che fa le feste al padrone. Invece con i film caschiamo costantemente in questa trappola emotiva, dalla quale sembra sempre troppo difficile uscire. La soluzione è semplice, smettere di produrre questo genere di storie a favore di chi ha davvero qualcosa da raccontare.