Scrivere di Watchmen è sempre uno squisito privilegio, un testo così intenso e provocatorio rare volte capita nelle mani di un amante del fumetto e l’opera di scrittura di Alan Moore è così innovativa e profonda da obbligare a pause di riflessione ed elaborazione durante la lettura. Ora si vola alto e si scomodano i giganti della verde Inghilterra: non stupisce che sia difficile e sofferente mettere in scena al cinema Moore ed una creatura come Watchmen, ma per capire l’operazione della HBO bisogna considerare che esiste un King Lear di Shakespeare in Fin de partie di Samuel Beckett o in Blasted di Sarah Kane, bisogna ammettere ovvero che il testo teatrale con cui riscrive Re Lear Edward Bond (“Lear”) o il provocatorio testo di The Gods Weep di Dennis Kelly (magistrale padre di Utopia) sono in fondo il miglior tributo che si potesse rendere all’opera originale del bardo. Insomma bisogna avvicinarsi alla scelta della HBO da questo punto di vista e con queste intenzioni o si finisce per cadere nel tranello dei paragoni sterili e didascalici.
In fin dei conti va chiarito che di Alan Moore si parlerà moltissimo in questo scritto perché il suo nome è assente dai crediti, così come era già accaduto per il film, ma Moore qui è regista extradiegetico della sua mitologia, ben consapevole che la sua assenza peserà più e meglio di una presenza sulla scena del set: come il fantasma di Amleto anche Moore sarà l’argomento principe di qualsiasi analisi e saggio su questa serie e della sua assenza o del suo silenzio si farà il tutto ed il nulla del pensiero e della filosofia intorno all’opera. In fondo anche la serie parte da assenze che accecano e silenzi che assordano, ogni singola assenza rispetto al testo originale suona come una piccola esplosione in una cristalleria, o forse, per rimanere in tema, come un gigantesco calamaro che precipita sopra una città.
Per capire la sacralità del lavoro di Moore bisogna forse dissacrarlo, mancare del rispetto che ci si aspetta. Immaginiamo così lo spaesamento dello spettatore preparato, che si aspetta all’inizio della serie di assistere alla morte del comico, così come si apre il primo atto del fumetto, già dalle parole qui usate emerge un senso classico e squisito della costruzione drammaturgica dell’opera. Ma invece al nostro spettatore vengono dati altri luoghi spiazzanti, eppure densi di indizi volti a farci capire che riusciremo ad amare il Watchmen della HBO solo se avremo imparato a trovare il poema nascosto che ispira il nuovo racconto: se dobbiamo sapere che c’è Shakespeare in Beckett per capire la grandezza di averlo nascosto, dobbiamo capire che il Comico ha un corpo, un volto ed un nome diverso questa volta. Lo showrunner Damon Lindelof si distanzia dal testo originale in maniera temporale e non in maniera stilistica, il tempo del resto è il sottotesto chiave dell’opera originale, orologi che minacciano la fine del mondo ed orologiai che diventano semidei fanno da colonna portante alla narrazione di Moore.
La storia di HBO Watchmen (trailer), tanto per dirla chiara, non solo non è un seguito del film, ma lo disprezza a tal punto da farlo stigmatizzare diegeticamente, lo stupro del testo originale da parte di Snyder è riproposto diegeticamente sotto forma di brutta serie televisiva che racconta male e falsamente, a detta degli esperti diegetici, le gesta dei supereroi di un tempo. Lindelof sceglie di ambientare la sua storia molti anni dopo gli eventi del fumetto di Moore, raccontandoci i sopravvissuti dell’ultimo capitolo invecchiati e trasformati dalla vita, contemporaneamente sceglie di raccontare attraverso flashback e pillole psichedeliche le origini della storia di Moore sviluppando personaggi e dettagli assenti nel testo. Inutile quindi interrogarsi se Moore potrà apprezzare o meno l’opera, poiché l’autore televisivo ha scelto di confrontarsi con il testo raccontando altro, giocando con il tempo e preferendo il prima ed il dopo al durante, somigliando in questo al personaggio che più rappresenta fulcro della definizione di tempo nel testo originale: il Dottor Manhattan.
Ma il lavoro di scrittura di Damon Lindelof non si limita a ricostruire attraverso un seguito il testo originale di Alan Moore, ma diventa perfino una riflessione sul fenomeno extradiegetico di Moore come artista anarchico ed ideologicamente scomodo. Guardando le immagini dei cittadini mascherati da Rorschach si pensa facilmente a una versione negativa dei cittadini mascherati da Guy Fawkes in V per vendetta e di conseguenza agli esponenti del movimento globale reale Anonymous che si ispirano proprio alle creazioni di Alan Moore. L’idea di riscrivere Watchmen spingendosi verso un vero e proprio revisionismo del testo originale non va però confusa con le operazioni di adattamenti di testi di Moore che hanno preceduto questo progetto. In pratica tutti i precedenti adattamenti di Moore soffrivano dello stesso difetto, nessuno era una revisione rispettosa dello scritto originale, ma piuttosto una semplificazione che spesso dava la sensazione di assistere ad una sorta di epurazione dei momenti più scomodi del testo originale. Il lavoro di Lindelof è al contrario il frutto di uno studio scrupoloso, una tesi di raffronto fra un periodo storico ed un altro, dove non si violano i principi basilari e più istintuali del racconto originale, ma li si ricollocano in un tempo ed in un periodo linguistico nuovo e diverso, somigliando di più ad una regia teatrale o di un’opera lirica che riadatta la scena in cui si svolge l’opera rinnovandone l’immagine senza violarne la purezza testuale.
Alan Moore ha riscritto in questi termini un testo classico come Swamp Thing scomodando persino l’estetica di Saul Bass ed il “plagio” di Superman noto come Supreme in cui la revisione del personaggio è un capolavoro di riflessioni extradiegetiche sulla natura di Superman stesso e di tutti i supereroi della prima epoca editoriale, il revisionismo in quel caso ha fatto di un prodotto da dimenticare un capolavoro assoluto degno di equiparazione con il fumetto che copiava. Quindi il revisionismo di Watchmen, a prescindere dai gusti personali, è il frutto di una conoscenza certosina dell’autore originale (da cui si prende ispirazione perfino per riscriverne il testo) e di un elaborato processo di analisi e produzione creativa su quella che possiamo ormai definire basilare della storia dell’arte contemporanea.
Sempre in ambito di contemporaneità è ben chiaro che oggi una delle caratteristiche determinanti di un buon prodotto sia la sua potenzialità speculativa. Chi scrive oggi serie tv o realizza nuovi filoni cinematografici sa bene di dover inserire sottotesti visivi accattivanti e capaci di aprire discussioni in rete, insomma sa che con qualche dettaglio nascosto si potrà produrre una viralità nel fandom abile ad aumentare la vita di un prodotto di intrattenimento. Damon Lindelof si mostra consapevole di dover inserire molteplici easter egg nella sua serie strettamente rivolti al popolo della rete che li cercherà, li userà, li manipolerà e farà di un dettaglio un vero link ipertestuale ad un numero imprevedibile di contenuti ed appunto speculazioni intellettualmente alte o basse.
Nel nuovo mondo di Watchmen abbiamo un personaggio di nome Specchio (Tim Blake Nelson) che in tutto e per tutto sembra la riscrittura di uno dei più amati personaggi del testo originale: Rorschach. Le origini della nuova protagonista Sister Night (Regina King) derivano da un vecchio vhs americano che trova da bambina in una bancarella di Saigon, la copertina del video fittizio rimanda in tutto e per tutto al manifesto del B-Movie della blacksploitation Velvet Smooth di Michael Fink con l’icona dell’epoca Johnnie Hill. Per potenziare e confondere ulteriormente le acque la produzione ha redatto e costruito falsi file segreti diffondendoli attraverso siti ufficiali in cui si sviluppano dettagli, si dipanano sottotrame e si costruiscono ragnatele paranoicizzanti diegetiche o extradiegetiche, perché la paranoia stile Rorschach dai tempi del fumetto originale ad oggi è cresciuta diventando un personaggio di spicco del pensiero internet e alimentando una miriade di movimenti di critica politica o religiosa. Dando retta a questa tesi si è quasi tentati di sostenere che si viva oggi in uno specchio degli Dei/Supereroi raccontati da Moore e Gibbson, che le loro caratteristiche oggi sono riscontrabili in tratti salienti della società in cui viviamo e che in fondo, come facevano gli antichi greci con i loro dei, siamo tutti un po’ il gufo, un po’ il comico o un po’ Rorschach a seconda di quello che ci capita. Ma se questa tesi ha un minimo di valore non è perché siamo stati plagiati o influenzati dalla forza narrativa di Watchmen, bensì perché il testo di Moore ha precorso i tempi sintetizzando i mutamenti del mondo in cui vive e prevedendone un po’ per talento ed un po’ per caso alcune inquietanti evoluzioni.
Il lancio della colonna sonora della serie è in se stessa una vera operazione diegetica e crossmediale per l’approfondimento della fruizione dell’opera. Sono stati rilasciati tre album in vinile legati alla serie ed ognuno riprende dei punti chiave della colonna sonora ampliando lo spazio e rivolgendosi anche alla creazione di testi aggiuntivi ed integrativi della serie. L’ultimo spazio di questa analisi è dedicato alla questione afroamericana, un tema che Moore non affronta nel testo originale ma che diventa basilare per la comprensione della serie tv. La serie comincia con i disordini razziali di Tulsa del 1921, questi eventi sono tanto terribili quanto poco noti alla massa, talmente poco evidenziati storicamente che solo nel 2001 si poté stabilire in modo ufficiale che trecento persone di colore erano state brutalmente uccise durante i disordini. Contrariamente al calamaro gigante che devasta una città, all’elezione di Robert Redford come Presidente degli Stati Uniti ed alla nascita dei supereroi, i fatti di Tulsa sono reali ed appartengono alla nostra storia ma sono al tempo stesso ancora fragili ricordi, così poco diffusi da sembrare parte della riscrittura creativa ad occhi poco attenti. Le conseguenze dei fatti di Tulsa sono impersonate da due icone del cinema contemporaneo afroamericano come Louis Gosset Jr, primo attore di colore della storia a ricevere un premio Oscar, e Regina King, premio Oscar anche lei ma nel 2018.
La riscrittura di Damon Lindelof è un tributo ed un atto d’amore al testo originale, una scelta che non deforma l’opera di Moore ma anzi se ne distanzia per rispetto preferendo riempire buchi e risolvere assenze piuttosto che violare e deturpare l’opera originale, in questo si legge un amore ed una coerenza che non può essere ignorata da un qualsiasi amante dell’opera originale.