Ben oltre qualsiasi tipo di riflessione critica, di pregi e difetti, di meriti e demeriti, di gusti e “disgusti”, è opportuno premettere che esiste – più che mai in questo caso – un’unica grande verità collettiva, difficilmente confutabile: è impossibile affermare che il cinema di Gaspar Noé passi inosservato sul grande schermo, e ciò, dobbiamo ammetterlo a noi stessi per onestà intellettuale, che ci piaccia o no.
Il regista argentino torna infatti a far parlare di sé, una vera e propria (non) novità visto che la sua intera filmografia sin dagli (ormai) lontani tempi di Irréversible è sempre stata divisiva e messa al centro d’infuocati dibattiti, principalmente di natura estetica. Checché se ne dica, nel bene e nel male, sicuramente la sua fama ormai lo precede, e forse tutti noi, un po’ troppo figli del pregiudizio, ci saremmo aspettati da lui un nuovo film altrettanto degno dei suoi precedenti ma mai così diverso.
Vortex (trailer) è la realizzazione di un prodotto che sicuramente taglia il cordone ombelicale col suo passato cinematografico ma che allo stesso tempo mantiene una coerenza autoriale importante, ben riconoscibile, e molto fedele al suo percorso. A caratterizzare l’intero girato, dall’inizio alla fine, troviamo infatti la sua a-tipica unicità espressiva e questo già basta a non poterlo definire un banale film sulla triste storia di due anziani che soffrono di demenza senile. Non è questo il focus e non è questa l’esigenza primaria del film, che sfrutta la trama solo come espediente narrativo, vale a dire, come un punto di partenza. Noé spoglia completamente la pellicola e la riduce allo stretto indispensabile affinché ci si possa totalmente concentrare sul senso impenetrabile della vita, sull’imprevedibilità del destino che si prende gioco dell’essere umano esattamente come farebbe una potentissima droga dall’effetto prolungato.
Questo messaggio arriva chiaro sin dai titoli di testa a cui vengono associate – ai nomi degli interpreti – le date delle loro nascite, quasi a voler accorciare la distanza tra la vita reale e la vita dei personaggi. La caratterizzazione di questi ultimi è estremamente affascinante: un’anziana mamma ex psichiatra all’ultimo stadio di Alzheimer (Françoise Lebrun) e un anziano padre scrittore, impegnato a scrivere un libro sul cinema (Dario Argento alla sua prima esperienza attoriale). Perdere il controllo della vita fino a non poterla più gestire è non solo ciò che gli accade, ma anche ciò che li accomuna al loro unico figlio, un ex eroinomane di nome Stéphan (Alex Lutz). Lo spettatore assorbe questa forte unione tra i soggetti principali grazie alla semplicità delle azioni quotidiane che, nella loro ripetitività, ci suggeriscono una lunga vita fatta di tempo trascorso insieme e di rimandi a sensazioni familiari: la casa, ad esempio, è un elemento fondamentale.
Tutto il film si svolge dentro casa e l’immagine di questa abitazione piena di oggetti e affollata di ricordi ci accompagna fino alla fine, ed entra totalmente in contrapposizione alla perdita della memoria e al senso di smarrimento, fino al momento in cui la vediamo svuotarsi completamente come se fosse anch’essa un personaggio pronta a morire assieme ai suoi inquilini. Ci sorprende anche trovare una fotografia meravigliosamente scarna, pulita, e priva di quelle sovrastrutture e di quei famosi “virtuosismi” che hanno mosso negli anni gran parte delle criticità attribuibili al regista. Possiamo quindi considerare questa nuova “luce” come una nuova svolta rispetto alle sue opere precedenti, dove ad esempio, l’impatto visivo aveva un ruolo totalizzante (pensiamo all’utilizzo dell’effetto stroboscopico in Climax). Alcuni elementi di eccentricità, presenti nel film, non risultano essere pretenziosi ma, al contrario, denotano una grande consapevolezza delle scelte stilistiche.
Ogni soluzione visiva ha un significato e quindi anche una ripercussione percettiva. In Vortex, tutto ciò si traduce con due elementi: l’uso delle riprese semi soggettive e l’adattamento al formato dello split screen. La scelta dello split screen, in particolar modo, è inizialmente disorientante perché costringe lo spettatore a indirizzare lo sguardo ponendolo di fronte a un bivio: chi devo guardare?
L’intenzione non sembra essere provocatoria, anzi, ci instrada lentamente verso una comprensione più profonda e dettagliata dei due protagonisti che seguiamo costantemente (con la semi soggettiva) ma allo stesso tempo separatamente (con lo split screen). È come se la macchina da presa e lo schermo costituissero una sorta di doppia lente d’ingrandimento. Di fronte al pubblico c’è lo schermo, che ci mostra la coppia insieme e unita ma, contemporaneamente, dentro allo schermo c’è la macchina da presa che si focalizza costantemente sulle loro individualità.
Anche questo binomio è sinonimo dell’incomunicabilità del destino, è il sogno dentro cui siamo immersi tutti, è la vita che non a caso proprio quando giunge alla fine ci divide, esattamente come la vediamo dentro allo schermo. Il concetto di cinema è quindi onnipresente. Nella trama, nella scenografia, perfino attraverso colonna la sonora scegliendo di inserire una parte del video clip originale di Françoise Hardy Mon amie la rose, tratto da un testo di Cecile Caulier (sulle note di un antico bolero di Jacques Lacôme D’estalenx) che cita «tu mi hai ammirato fino ieri ma da domani sarò per sempre polvere».