Il 17 giugno 2004 Before Sunset (trailer) di Richard Linklater debutta nei cinema tedeschi come il secondo capitolo della trilogia iniziata da Before Sunrise nel 1995. Il film, presentato proprio al Festival del Cinema di Berlino, riscuote un notevole successo. Con un budget di poco più di 2 milioni di dollari, arriva ad incassarne quasi 16.
Per la critica, invece, Linklater ha di nuovo fatto centro: Empire inserisce l’opera al 110° posto dei film migliori di tutti i tempi, mentre The Guardian nomina il dittico Before Sunrise/ Before Sunset il terzo miglior film romantico della storia del cinema.
Arrivati a questo punto e, appurato l’enorme valore che la trilogia ha saputo conquistarsi negli anni, c’è da chiedersi “come?”. Come una saga così profondamente narrativa sia riuscita ad imporsi in un’industria che al termine “saga” collega ben altro genere? Ma soprattutto come, in un periodo totalmente dominato dal modello del blockbuster, Linklater sia arrivato a concepire questa particolare idea di cinema? Come per ogni storia che si rispetti, l’origine dell’arte, quella di un movimento o di una corrente di pensiero ha radici lontane. Non una singolarità bensì il risultato di molteplici conseguenze e contaminazioni che si intrecciano nel tempo. Allora torniamo indietro e riscopriamo il lungo processo che ha fatto di Richard Linklater e la sua filmografia tra le più apprezzate del cinema indipendente.
Anni ’80: da E.T. l’extra-terrestre alla solitudine dell’uomo moderno
Gli anni ’80 o “the execes decade”, per chi li ha vissuti, ancora oggi sono ricordati come un periodo elettrizzante. Furono gli anni del colore, quelli della musica pop e dei costumi stravaganti. Gli anni dei rave, dell’extacy, di Pacman e dei Simpson. Un momento artisticamente travolgente che nascondeva però, dietro le paillettes e le icone planetarie, una forte crisi identitaria. Mai come allora gli errori del passato gravavano sulle teste delle nuove generazioni americane. La guerra in Vietnam aveva accentuato il debito pubblico e la disuguaglianza sociale; allo stesso modo la fiducia verso i leader era ai minimi storici.
In questo marasma sociale, la grande macchina dei sogni, capace di incantare ed emozionare, si prefiggeva un unico fondamentale obbiettivo: evadere. Portare milioni di spettatori altrove, lontano dai problemi e dalle paure del presente. Fu così che nacquero i tesori sepolti di Indiana Jones (1981), le spade luminose di Star Wars (1977) e le fughe volanti di E.T. (1982), sopra tutto e sopra tutti. Mai come allora cinema era sinonimo di spettacolo. Quel mondo però, sfavillante come le luci di Hollywood, non avrebbe potuto nascondere la verità in eterno. Man mano che il sogno cresceva, lo stesso faceva la consapevolezza e nelle strade tra New York e Los Angeles il cinema underground venne alla luce.
Il nuovo cinema indipendente
Dal Do the Right Thing di Spike Lee (1989) a Steven Soderberg e il suo Sex, Lies and Videotape (1989), il cinema indipendente tornava a puntare la macchina da presa verso le fragilità del decennio. Quella stessa macchina da presa che per troppo tempo era rimasta incantata a fissare le astronavi, adesso ci sbatteva in faccia la verità. Una realtà fatta di razzismo, odio, solitudine, alienazione.
The Breakfast Club di John Hughes (1985) mirava al medesimo obiettivo. Esaminando un gruppo di ragazzi provenienti da diverse classi sociali, il film ci mette in una stanza, assieme a loro, e ci obbliga al confronto. Ciò che emerge è lo stesso senso di isolamento, la stessa paura e ricerca di identità in ognuno di loro, in ognuno di noi. Schiacciati dalle pressioni sociali e dalle aspettative, Il film fu una lotta all’essere vivi, ad essere se stessi. Una grande opera di formazione in un decennio in cui tutti avevano bisogno di maggiore intimità.
Soderberg, Lee, Hughes : ognuno con un proprio stile, ognuno con lo sguardo fisso sul presente. Tra questi artisti spicca un altro nome, un altro modo di fare cinema: Jim Jarmusch. Quello di Jarmush fu un cinema vicino a quello dei registi precedenti ma per certi versi molto differente. Nelle sue opere egli raccontava spesso storie di emarginati, esattamente come gli altri maestri, ma piegando la narrazione e i suoi elementi fino a renderli derivato dei suoi personaggi. Spieghiamoci meglio.
In Stranger than paradise (1984) il secondo film del regista, i fatti narrati cominciano a New York, la stessa città scelta da Spike Lee per Do the Right Thing ma in una chiave completamente diversa. Se nel film di Lee infatti Brooklyn è il cuore del racconto, matrice del contesto sociale in cui si confrontano i personaggi, la stessa metropoli, filmata da Jarmush, diventa un recipiente vuoto che non modella i suoi personaggi bensì si fa modellare. Le città che si susseguono nel road movie di Jarmush allora appaiono vuote, completamente desolate e abbandonata a se stesse. Riflesso della condizione dei suoi personaggi e non viceversa. Partire dal piccolo per comprendere il grande, ecco la filosofia dietro i film del regista.
Tutto focalizzato sui volti dei suoi attori, spesso sconosciuti, a volte nemmeno professionisti. Era questa l’altra faccia del cinema del 1980: intimo, introspettivo. Ma da dove arrivava questo approccio? Da colui che forse, più di tutti, modellò lo stile di Richard Linklater: John Cassavetes.
Anni ’90: Da John Cassavetes a Richard Linklater
Quando nei successivi anni 2000, il movimento Mumblecore (tra cui Greta Gerwig e i fratelli Duplass), fece la sua prima apparizione, la critica identificò facilmente i suoi punti di riferimento storici. Il termine Mumblecore così fu sostituito da un’altro assai più interessante: “Slackavetes”. Crasi tra Cassavetes e Slacker (1990) il primo film di Richard Linklater. Ma cosa rendeva così vicini questi due autori straordinari tanto da renderli un punto di riferimento per le nuove generazioni? Andiamo per ordine.
Gli anni ’90 furono gli anni del digitale. Il cinema di intrattenimento continuava la sua scalata imperiosa entrando in una nuova epoca d’oro: la CGI (Computer Generated Imagery) finalmente veniva introdotta nelle prime opere cinematografiche. Da sempre, i registi di ogni epoca avevano sognato di filmare nuovi mondi, creature di altre epoche ed universi, ora era possibile. Jurrassic Park (1993) di Steven Spielberg fu più che un successo commerciale, fu un manifesto culturale, fu l’esaltazione di un epoca. Di pari passo, il progresso tecnologico permetteva una libertà produttiva senza precedenti: non più legati a quelle grandi macchine a pellicola, l’avvento delle videocamere favoriva una diffusione del mezzo su larga scala. Nel 1990 finalmente, chiunque poteva imbracciare quel nuovo obiettivo più leggero ed economico e filmare la propria storia. Tra quei “chiunque”, in Texas, lontano dai riflettori di Hollywood, era pronto ad emergere uno dei registi più influenti del nuovo cinema indipendente: Richard Linklater. Il suo film d’esordio, Slacker era destinato ad entrare nella storia della controcultura.
Slacker
«Slacker non rispettava alcuna regola narrata del cinema con cui eravamo cresciuti» Sono le parole di Jason Reitman, il regista di Juno (2007), a proposito di Slacker, e di fatto era proprio così. Il film, ambientato ad Austin, è strutturato ad episodi. Non come capitoli di una storia o di un messaggio da veicolare, ma come momenti a sè. Spezzoni capaci di raccontare, attraverso scontri e confronti, il tessuto sociale di una città. Così in Slacker la videocamera ci lasciava vagare liberamente sopra le teste dei nostri personaggi che diventavano l’unico elemento della scena; esattamente come, in un certo modo, Cassavetes aveva fatto con Shadow nel 1959 quando, focalizzando completamente l’attenzione sui suoi attori, era riuscito a descrivere, per osmosi, tutto l’attrito e il nervoso di una generazione. Ancora una volta: partire dal piccolo per comprendere il grande. Lo aveva fatto Jarmush con il suo Stranger Than Paradise e lo aveva fatto Cassavetes, appena 31 anni prima.
Anni 2000: il nuovo cinema di Linklater
Il dialogo come principio del tutto, la parola come fondamenta sul quale creare un immaginario: su queste basi si costruisce la carriera di Richard Linklater e la sua Before Trilogy,. Una saga capace di ridurre all’osso ogni elemento cinematografico per lasciarci solo all’essenza più pura delle cose: un uomo e una donna si incontrano, parlano e grazie a loro scopriamo di più sul presente e su ciò che oggi significa amare, nella maniera più cristallina possibile. Le opere di Linklater, quelle dei Linklater di ogni generazione della storia del cinema , sono la dimostrazione di come ciò che conti veramente nella settima arte sia solo la capacità di comprendersi. La capacità di connettere, tramite dialogo e parole, i bisogni e le mancanze del presente; le brutture ma anche i punti da cui ripartire. Non serve nient’altro.
FILMOGRAFIA
• Michael Dunaway, Tara Wood, 21 Years: Richard Linklater, 2014
• Karen Bernstein, Louis Black, Richard Linklater: Dream is Destiny, 2016
BIBLIOGRAFIA
• Pier Maria Bocchi, Invasion USA. Idee ed ideologia del cinema americano anni ’80, Bietti, 2016
• Ray Carney, John Cassavetes, Cassavetes on Cassavetes, Farrar Straus & Giroux; Main edizione, 2001