Il lavoro sembra essere l’unica cosa che conta nelle montagne dello Yunnan. L’unico scoglio a cui aggrapparsi per non essere portati via dalla spietata corrente della povertà. Youth (Homecoming), diretto da Wang Bing, è stato presentato in Concorso alla 81. Mostra d’Arte Cinematografica.
Il regista segue i personaggi, giovani e non, nelle loro esistenze, tracciandone minuziosamente i contorni. I protagonisti di questa storia sono lavoratori di industrie tessibili che, tra sporcizia, stenti e sprazzi di felicità, tentano di arrivare alla fine dell’anno con dei soldi in tasca, provano a tornare a casa per Capodanno con delle speranze in più. Affrontano lunghi viaggi verso destini incerti, zoppicanti verso un futuro che sembra già essere tristemente scritto.
Dopo Youth (Spring) e Youth (Hard Times), Wang Bing chiude la sua trilogia con Youth (Homecoming). Lavoro titanico durato ben cinque anni. Tra ricerche, un enorme quantità di materiale raccolto e tanta propensione emotiva per le storie che si stanno raccontando. Il regista traccia i profili dei suoi personaggi, connotandoli tutti di caratteristiche definite. Entra nelle loro vite pronto a conferire ad ognuno una identità.Youth (Homecoming) è un documentario che vuole restituire le condizioni di una massa, eppure, non vediamo minimamente la generalizzazione che solitamente consegue a lavori di questo tipo. Leggiamo nomi, gradi di parentela, località di provenienza; veniamo guidati in una viaggio immersivo in cui nuclei indistinti di persone cominciano ad avere finalmente un volto e una storia personale.
C’è chi spera di trovare fortuna, chi è rassegnato ad un destino inclemente, chi si gode i primi amori e chi pensa a costruire una famiglia. Tutti i personaggi cercano di sopravvivere, in un modo e nell’altro. Nonostante in ogni frame creato da Bing traspaiano l’arretratezza e le condizioni precarie che costellano le vite rappresentate, non c’è una disperazione ostentata, l’afflizione è piuttosto velata, anche se tangibile.
Il regista, sia nei contenuti che nella messa in scena lavora di sottigliezza e, con la stessa sottigliezza, cerca di far arrivare una critica sociale. Segue i suoi personaggi con la camera a mano, li ispeziona, lasciando però lo spazio necessario per far fluire agitazione, commozione e tenerezza. E con essi riprende le loro mani che lavorano, cattura gli spazi angusti che li ospitano, si sofferma su particolari apparentemente trascurabili, ma necessari per restituire una realtà.
Anche se la mdp spesso è traballante, gli occhi che riprende non lo sono mai, sembrano a volte quasi sfidare lo spettatore che è dall’altra parte, scrutarlo con curiosità, osservarlo con dignità. “Tu non sei meglio di me” questi sguardi sembrano quasi dire. Tutti siamo sotto lo stesso cielo.
Pur se non si conosce il regista e la sua filmografia si rimarrà sorprendentemente colpiti da questo film che travolge anche se fluisce quieto, che fa delle pause, dei silenzi e del lungo minutaggio sue componenti imprescindibili. In queste umili ma mastodontiche vite si entra piano, in punta di piedi, proprio come fa lo stesso Wang Bing, un grande Maestro del cinema del reale che si mette totalmente a servizio di una storia che deve prendersi tutto il suo spazio per essere restituita fedelmente.