#Venezia81: Vermiglio, la recensione del film di Maura Delpero

vermiglio, la recensione del film

In una casa dispersa tra le montagne del Trentino la Seconda guerra mondiale sembra non essere mai passata. Eppure fuori infuria, ma la vita procede lenta in Vermiglio, film scritto e diretto da Maura Delpero, presentato in Concorso alla 81. Mostra d’Arte Cinematografica.

La famiglia Graziadei gravita intorno al suo fulcro che è l’uomo di casa (Tommaso Ragno). Insegnante, uomo di cultura, predilige un disco al pane, in tempi in cui concedersi certi vizi è pericoloso per la sopravvivenza. Non sembra porre particolare attenzione ai suoi figli e ai drammi che li sobbalzano, eppure sente il dovere di scandire lo scorrere delle loro vite, imporre la propria traccia sul loro futuro. Traccia minuziosamente il contorno delle identità delle sue figlie in un periodo storico in cui per le donne decidere non è consentito.

Le protagoniste sperimentano sé stesse, mentre fuori un mondo apparentemente calmo rivela il presagio di un male che non tarderà ad arrivare. Flavia è la figlia intelligente su cui il padre depone le più grandi aspettative, Ada, estremamente religiosa, tende a flagellarsi per i pruriginosi istinti che la scuotono e Lucia ha perso la testa per un soldato taciturno. Le tre cercano di farsi largo nelle loro scivolose esistenze, con quell’inabilità a vivere tipica di una giovinezza corrotta da scelte difficili.

L’elemento bellico in Vermiglio funge solo da sfondo. Miccia incandescente che stagna nel sottosuolo, parete scura in una storia che presenta la tensione a raccontare altro. Il film di Delpero parla di primi amori giovanili che durano un istante, di proibite scoperte sessuali capaci di mettere in dubbio dogmi radicati, di desideri che si spengono e si accendono e, che quando si spengono, lasciano ferite laceranti.

Gli infanti sono i testimoni della storia, Delpero si serve di loro come di un coro. Accompagnano gli eventi e ne scandiscono il tono emotivo. Tendono a rappresentare la ritrovata leggerezza, in un film come questo che, spesso e volentieri, decide spontaneamente di non prendersi troppo sul serio. Frequenti sono i sorrisi suscitati genuinamente da un dialogo scanzonato di un bambino che guarda per la prima volta la realtà. Chi, se non lui, può restituire al meglio gli strascichi invisibili che la guerra appiccica addosso?

La regista non si avvicina mai troppo con la mdp ai suoi personaggi, piuttosto sembra quasi ispezionarli da lontano, lasciare una distanza di sicurezza tra sé e loro, tra loro e noi. Vermiglio è un film che respira. Possiamo percepirlo dagli ampi ambienti restituiti con inquadrature fisse, dai campi lunghi di natura incontaminata, da una fotografia maestosa che vuole essere contemplata, da uno scorrere del tempo che procede lento. Spazio immacolato in cui lo spettatore è libero di muoversi, sperimentare, capire, destreggiarsi tra le più sfaccettate inclinazioni della natura umana. Non ha fretta di procedere questa storia, eppure, l’urgenza di voler essere raccontata si avverte, come si avvertono la premura e la delicatezza con cui la regista cerca di restituire anche il più minuzioso dettaglio.

Il secondo film italiano presentato in Concorso a Venezia 81 è una delicata favola di luci e ombre che si espande e si prende il suo meritato tempo per raccontarsi. La Seconda guerra mondiale si conficca come piccole schegge nelle unghie dei personaggi, eppure gli stessi sono ancora capaci di stringersi le mani.

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