«La porta è aperta ormai, non puoi più chiuderla, puoi solamente guardare da un’altra parte». Cosa succede se un uomo che passa da un corpo all’altro, che gira i locali di tutta la città si ritrova a guardarsi allo specchio? A fare i conti con tutto quello da cui disperatamente tenta di scappare? Queer è il nuovo film di Luca Guadagnino, in Concorso alla 81. Mostra d’Arte Cinematografica.
William Lee (Daniel Craig) è un uomo di mezza età che cerca qualsiasi espediente per fuggire da sé stesso: droga, alcol, uomini. In un posto come la Città del Messico in cui trovare queste cose a poco prezzo è un gioco da ragazzi. Eppure Lee è estremamente solo e lo diventa ancor di più quando conosce il giovane Eugen (Drew Starkey). Bello quanto scostante, difficile da avvicinare e impossibile da mantenere al proprio fianco. Il protagonista tenta di instaurare con quest’ultimo una connessione emotiva, disperato espediente per sollevarsi dalla scomoda solitudine che lo immobilizza in una vita inappagante.
Ma l’ingranaggio si intacca e il protagonista invece di trovare conforto si riscopre ancora più attanagliato dalle sue ossessioni e paure. Eugen accende William, carnalmente, sentimentalmente e accendendolo lo divora. In un viaggio nelle zone incontaminate del sud America i due si trovano a sperimentare una droga, lo yage, che li sorprenderà in un trip destabilizzante.
Daniel Craig, l’agente 007, l’uomo forte capace di ribaltare la situazione portando il bene a trionfare, qui si ritrova a destrutturare completamente il prototipo dei personaggi che gli sono stati finora affibbiati. E lo fa in maniera impeccabile. Lee è sporco, restituito continuamente con quella patina di sudore che sembra quasi rappresentare la fatica dei suoi conflitti interiori. Zoppica da una parte all’altra, da un uomo all’altro per cercare quel contatto di cui ha bisogno, quello spiraglio di vita che sembra averlo abbandonato. Intraprende continuamente una lotta impari con la morte, tentando di ancorarsi a qualcosa che possa permettergli di percepirsi vivido. E quando lo trova, ci si aggrappa con le unghie, fino a sanguinare.
Guadagnino lavora minuziosamente con i corpi dei suoi personaggi. Li osserva, li scompone, li fa agire e poi li arresta. Ne studia le intenzioni. Eppure, li pone in una dimensione di sessualità smorzata. In Queer il sesso c’è, è anche esteticamente attraente, ma è moderato, quasi annoiato. In un film così tattile sembra un paradosso assistere ad una resa frenata e rassicurante della carnalità. Dove è il desiderio irrefrenabile che Lee prova per Eugen e che dovrebbe portarlo alla perdizione? Si vede, a tratti, negli intenti, ma non nel momento in cui le pelli dei due personaggi si sfiorano, non nel momento in cui i loro desideri si annusano.
Queer ha le sembianze di un fan-film. Guadagnino tenta una fedele riproduzione del libro di William Burroughs (da cui è tratto), che tanto ha amato. Ma, probabilmente, il troppo entusiasmo ha tolto un po’ di personalità all’intera opera. Tante (troppe) sono le citazioni, le tonalità, i registri che interessano la seconda parte di Queer. Così tante da disorientare, così tante da risultare respingenti agli occhi di spettatori che non hanno la capacità di riuscire a coglierle interamente. Un po’ Chiamami con il tuo nome, un po’ Suspiria, Guadagnino oltre a guardare al cinema degli altri attinge anche al suo, scadendo spesso in una dimensione quasi autocompiacente che agisce a scapito dell’andamento narrativo.
Più o meno a metà film ci troviamo dunque davanti ad un svolgimento pregno di prove registiche, sperimentazioni, che poco riguardano la parte iniziale, la quale appare piuttosto come una “preparazione” a quello che verrà dopo, un espediente per raccontare altro. Eppure una maggiore attenzione alla psicologia dei personaggi (soprattutto a quella di Eugen) avrebbe giovato alla resa finale, avrebbe alimentato con forza il significato insito nel film.
Il regista di Challengers con Queer tende verso una disincarnazione della realtà, abbattimento delle etichette, distruzione delle pareti. Lo fa con quella maestria tecnica che contraddistingue i suoi film. Eppure, la stessa fluidità non si legge nella resa complessiva di una storia che avrebbe potuto tendere ad una maggiore leggibilità e, quindi, apertura.