#Venezia81: Maria, la recensione del film di Pablo Larraín

«Vieni con me» disse la diva guidandoci all’interno di una storia in cui l’oggettività e la soggettività, la realtà e il sogno si inseguono. Con un gusto agrodolce sul palato e un senso di malinconia vibrante assistiamo alle ossessioni e agli attimi di lucidità della Primadonna, Maria Callas. Maria (trailer), diretto da Pablo Larraín, è stato presentato in Concorso alla 81. Mostra d’Arte Cinematografica.

Il regista di Jackie e Spencer torna a raccontare la vita di una donna tormentata, ancora una volta affiancato dalla penna esperta di Steven Knight. La regina del canto lirico, fin dal principio, ci viene mostrata come un usignolo intrappolato in abiti scenografici troppo stretti, una main character (in tutti i sensi) divisa tra relazioni che la ingabbiano e identità che non la rappresentano.

Il film di Larraín insiste sulle zone d’ombra, sui terreni inesplorati della vita della donna, catalizzando l’attenzione sugli ultimi giorni di vita della diva. E lo fa rompendo le regole del biopic canonico. Alterna formati, colori, in un’oscillazione tra passato e presente, tra le immagini originali di Callas e l’interpretazione di Angelina Jolie. L’attrice, dopo anni di assenza sul grande schermo, pur non aderendo perfettamente alle caratteristiche fisiche della diva, scavalca questo apparente ostacolo cucendosi addosso il personaggio, offrendo al pubblico una Maria ambivalentemente magnetica.

La realtà diventa palcoscenico. I personaggi si ritrovano incorniciati da inquadrature lunghe, esplorati da lenti zoom, diventano ornamenti di scenografie come in teatro. E, come in teatro, è davvero così importante definire cosa sia reale e cosa no? Ci dirigiamo inconsapevoli verso gli ultimi tumultuosi, scricchiolanti giorni di vita di Maria Callas, con la consapevolezza che quello a cui stiamo assistendo sia manipolato dallo stato d’animo della donna, fuorviato da una percezione alterata dalla verità. Larraín va oltre la biografia, ci incastra in un viaggio nei subbugli emotivi della protagonista. Schiavi, sedotti da questo irresistibile incantesimo non possiamo far altro che assaporare il dolore della donna, quasi estasiati dalla sua integrità.

Ma la Primadonna che donna era? Quanto sappiamo di Maria Callas se ci discostiamo dall’idea che abbiamo di lei come artista? Angelina Jolie si osserva allo specchio per tutto il film. Specchi piccoli, specchi grandi, ovali, quadrati. Cerca di riattaccare i frammenti di sé stessa, cerca di percepire il suo corpo. Corpo che, forse, dietro a quella voce è scomparso troppo spesso. E, al termine della storia, probabilmente neanche lo spettatore sa chi sia Maria. Se la donna che chiede al suo maggiordomo di spostare pianoforti tutti i giorni solo per il gusto di farlo, se la donna dipendente dalle influenze delle persone che dicono di amarla. Probabilmente entrambe.

Per tutta la vita Callas è stata spinta a cantare o a smettere di cantare. Come se la sola cosa che la rappresentasse fosse il suo talento, come se la sua identità fosse dettata dall’impatto della sua voce sugli altri. E nel momento in cui non rimane più niente da dimostrare? Più nessuno da impressionare? «La diva deve cantare». The show must go on. Fino alla fine.

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