Esiste sempre una netta distinzione tra una buona azione e una spregevole? Le iniziative compiute in nome del bene comune possono celare, in realtà, un desiderio di accrescere il proprio ego? È possibile partecipare attivamente a un dolore che non si è vissuto personalmente? Il film Marco ci pone davanti a questi interrogativi mettendo in scena, con una magistrale interpretazione di Eduard Fernández, un fatto di cronaca spagnola. Nel 2005, Enric Marco, all’epoca presidente dell’Amical de Mauthausen, un’associazione di ex deportati spagnoli nei campi nazisti, venne smascherato come impostore dallo storico Benito Bermejo. La vicenda ispirò anche lo scrittore Javier Cercas che ne scrisse suo romanzo L’impostore, pubblicato nel 2014.
I due registi Jon Garaño e Aitor Arregi decidono dunque di affrontare un tema già ampiamente discusso, scegliendo deliberatamente di andare nella direzione opposta al consueto piacere dello svelamento della verità. La narrazione, infatti, ci pone fin dall’inizio di fronte alla colpevolezza di Enric; l’obiettivo è mostrarci i suoi affanni disperati nel mantenere a galla l’immagine che ha costruito nel tempo. Per riuscirci Marco ha utilizzato la sua abilità oratoria in innumerevoli conferenze, incontri con studenti e commemorazioni ufficiali, sfruttando l’indignazione per la mancanza di riconoscimento delle vittime spagnole da parte del proprio paese. L’elemento su cui si regge la menzogna però è la falsificazione della fotocopia del registro di un campo di concentramento: modificando il cognome di una vittima, sua omonima, Enric trasforma “Marquez” in “Marco”, appropriandosi così della sua identità.
Il fatto che Enric abbia guidato per anni l’associazione e sia riuscito a ottenere la presenza del premier Zapatero all’anniversario dell’apertura del lager di Mauthausen, un evento che ha dato un enorme visibilità agli ex deportati spagnoli, apporta un ulteriore elemento di dualismo alla sua vicenda. Da un lato l’uomo patetico e spregevole capace di autoaffermarsi attraverso un evento storico così orribile, dall’altro un individuo che, attraverso delle menzogne, ha comunque ottenuto risultati positivi e si è dedicato anima e corpo alla causa.
Tuttavia, non tutta la colpa deve ricadere sulle sue spalle: la facilità con cui le sue bugie penetravano attraverso cariche di prestigio e riconoscimenti suggerisce negligenza da parte di coloro che avrebbero dovuto controllare mentre, da parte di famiglia e amici, ha prevalso il bisogno di credere all’innocenza di Enric e alle sue imprese. La vicenda di Enric Marco Batle stimola quindi una riflessione sul nostro desiderio di credere a un racconto lineare, moralista e privo del peso insostenibile del dolore che un evento come l’Olocausto provoca in chi l’ha vissuto realmente. Anche per questo forse, una volta scoperto l’inganno, gli abbiamo voltato le spalle così rapidamente, perché ci ha fatto sentire complici e colpevoli di essere appassionati a una finzione.