#Venezia81: Il tempo che ci vuole, la recensione del film di Francesca Comencini

Il tempo che ci vuole, la recensione dell'ambizioso film di Francesca Comencini presentato Fuori Concorso a Venezia81

Il difficile rapporto che si instaura tra padre e figlia, quando il padre lavora nel cinema ed ha poco tempo da dedicare a lei, è una storia sicuramente già sentita. Stavolta, però, Francesca Comencini, figlia del noto regista italiano Luigi Comencini (Pane, amore e fantasia; Tutti a casa; Incompreso…), ci racconta un rapporto in un certo senso diverso. Infatti, sin da piccola, Francesca è sempre stata oggetto delle attenzioni del padre, un uomo certamente burbero e apparentemente severo, ma comunque molto premuroso e presente nella sua vita.

Il tempo che ci vuole (trailer), presentato fuori Concorso a Venezia81, tenta proprio di ricostruire l’evoluzione del loro rapporto, da un’infanzia tenera e giocosa, passando per un’adolescenza sciagurata, fino a una maturità all’insegna dell’unione, finalmente ritrovata grazie alla sola passione che li accomuna: il cinema. È proprio quest’ultimo lo strumento salvifico, l’unico che, come dice Luigi, ha il potere prodigioso di farci evadere dalla realtà e trasportarci in quel mondo perfetto e senza problemi, che solitamente chiamiamo immaginazione.

E sono proprio l’immaginazione e i frutti da essa generati ad essere protagonisti. Infatti, soprattutto nella parte dedicata all’infanzia, questo elemento è solito emergere come esemplificazione della magica spensieratezza che caratterizza quegli anni. Con il passare del tempo questa forza andrà sempre più scomparendo e con essa anche le qualità dell’opera stessa. Se infatti lo slancio iniziale appare quasi impeccabile, la parte centrale e l’epilogo esplicitano manifestamente tutti i difetti di un film così ambizioso.

La brillantezza avvincente delle prime scene si disperde definitivamente nel periodo adolescenziale. Gli anni di piombo, il sentirsi un fallimento e il conseguente abuso di eroina non sono certamente ricordi felici, e ci mancherebbe altro, però la regista, acuendone eccessivamente la drammaticità, ce li rende irrimediabilmente un noioso piagnisteo. Infatti, nonostante il talento degli attori principali (Romana Maggiora Vergano nella parte della figlia e Fabrizio Gifuni in quella del padre), il film è destinato a perdere quella personalità iniziale che tanto mi aveva interessato, per lasciar posto a uno scialbore quasi insopportabile. Nonostante ciò, il risultato nel complesso risulta discretamente piacevole, con alcuni picchi interessanti (la scena sul set di Le avventure di Pinocchio ed il grido “C’est Paris!”, tratto dall’Atlantide di Pabst, pronunciato dai due di fronte alla Senna).

I rimandi cinematografici sono tanti e fanno piacevolmente trasparire la grande devozione che la regista serba alla settima arte, la sua ultima ragione di vita.
Ed è il cinema, infatti, a suggellare il riavvicinamento con il padre: la loro commozione di fronte a Paisà, i racconti del padre, i suoi consigli. Eppure, la visione di Luigi rispetto a questo mestiere è quasi opposta a quella della figlia. Se per lui un film è sopratutto il risultato di un lavoro muniziono che deve, prima di tutto, piacere al più vasto pubblico possibile , la visione di Francesca è figlia di quella generazione che ha trovato nel cinema e nell’arte la possibilità di parlare di sé e dei propri problemi, come fosse un’approfondita seduta psicanalitica. Questa profonda aspirazione ha generato negli anni quel tipo di film che Luigi non riuscirebbe mai a vedere, come egli stesso rivela.

«È così il cinema. Ti mostra quello che trova». Questa frase pronunciata dal padre risuona nella testa della figlia come un mantra indimenticabile, come una massima da perseguire. Questo film, allora, diventa accettabile nelle sue imperfezioni e contraddizioni, in quanto sintomo di due visioni diametralmente opposte, quella del cinema dei padri e quella del nuovo cinema introspettivo. Non è, dunque, poi così male ciò che abbiamo visto. Certo, Francesca Comencini ha un po’ esagerato, forse si è sopravvalutata o forse, semplicemente, non poteva fare altrimenti con una storia del genere: un film monumentare, che racconta non solo la storia della sua vita, non solo di quella del padre, ma dell’Italia stessa e, infine, del cinema, la sola cosa che conta.

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