Iddu (trailer), in Concorso all’81esima edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, parte chiarendo subito le cose. Il film di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza si apre con un cartello paratestuale, che ci tiene a rassicurare sul fatto che la storia sul boss mafioso Matteo (Elio Germano) sia solo liberamente ispirata ai fatti reali, perché «la realtà è un punto di partenza, non una destinazione».
I «fatti reali» con cui la scritta implicitamente dialoga, infatti, sono quelli intorno alla latitanza del capo di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro, che – nel periodo in cui il film era stato annunciato – moriva dopo un lungo periodo di clandestinità e l’arresto nel 2023. Il primo atto di Iddu, quindi, è smarcarsi dalle problematiche implicazioni di una biografia sull’efferato criminale a ridosso della grande eco mediatica. Insomma, si precisa che sì, la corrispondenza epistolare tra il boss e l’ex sindaco Catello (Toni Servillo) è esistita davvero – in quei famosi “pizzini” – ma il racconto è frutto di una deliberata rielaborazione, che sfrutta la realtà ma poi se ne allontana.
L’atmosfera, di conseguenza, scevra da imposizioni storico-biografiche stringenti, oscilla tra il farsesco e il crime, tra dramma e commedia, in un miscuglio frizzante di grottesco che riesce ad andare oltre i pregiudizi attorno al film. La coppia di registi imbastisce con personalità una notevole messa in scena che vive di ritorni, simboli e dissonanze, proponendo un prodotto il meno possibile televisivo (c’era il rischio) e dalle trovate interessanti. A mettere i bastoni tra le ruote ci pensa però una sceneggiatura sfilacciata – con una protagonista femminile (Daniela Marra) a tratti insopportabile – che, come nel loro A Sicilian Ghost Story, è tallone d’Achille di una creatura coraggiosa e peculiare per il cinema italiano.
Come in quel film – altro liberamente ispirato a un fatto di cronaca, l’omicidio del piccolo Di Matteo – l’ambientazione è quella della Sicilia rurale, quella arida e folkloristica dell’immaginario mafioso. Se nel precedente, però, quest’immaginario era trasfigurato nella chiave dell’onirico e della fiaba dark, qui – dove comunque non mancano i fantasmi, come il padre di Matteo in forma di spettro mentale – gli si dà un’ironia e un ritmo incalzante che donano un gustoso brio alla narrazione. E Grassadonia e Piazza, va riconosciuto, hanno il grande pregio di approcciare una materia del genere non con il pedagogico didascalismo tipico di queste produzioni, ma con un’energia che trascende forzature retoriche e intrattiene molto bene.