Prima della digitalizzazione, prima dell’impressione fotografica, prima della linea prospettica, c’è la mappa. Athina Rachel Tsangari lo sa bene: è l’eredità tolemaica a possedere in nuce i crismi della modernità. E se il 1492 è anno convenzionale per indicarne l’avvio è, prima di tutto, perché Colombo legittima la cartografia e le sue coordinate spaziali, al territorio sostituisce la mappa, al mondo la sua rappresentazione. In Harvest, in Concorso all’81esima Mostra del Cinema di Venezia, il quadretto bucolico di una comunità autosufficiente, in armonia con la natura e in comunione con i suoi frutti, viene violato dall’arrivo di un cartografo con il compito di mappare i territori del villaggio, definirne i confini, assegnare nomi, catalogare, controllare, uccidere. La sua è una profanazione inconsapevole, perché nel suo afflato definitorio risiede il seme dell’ingenuità, della meraviglia, dell’”innamorarsi di ogni cosa”, poi di una cristallizzazione come bisogno primordiale, del possesso conoscitivo come riflesso di desublimazione.
E allora gli abitanti di questo villaggio senza nome, perso nel tempo (un Medioevo non meglio definito) e nello spazio (siamo in Inghilterra o in Scozia) – comunque esistente e producente (non produttore) al di fuori di una contestualizzazione e di un filtro segnico e grafico – tutti assorti in un ritualismo pagano di chi “da Dio è solo sfiorato”, immersi in una quotidianità campestre che segue i ritmi della natura e ci danza in una trance dionisiaca che è ancora metamorfosi silvana, sperimentano il movimento funesto di uno sconvolgimento percettivo in atto.
Se Walter (Caleb Landry Jones), che è essere silvestre per eccellenza, che nuota, accarezza, mastica, penetra, si unisce sensualmente alla natura, ne è inizialmente affascinato, incoraggiato da una sensibilità condivisa con il mappatore Quill, che come lui è fanciullo di fronte al creato, non può che accodarsi nello scovare nel forestiero le sembianze del capro espiatorio, qui caprino proprio perché, nei fatti, diabolico sovvertitore di un’armonia edenica, prima e più delle mire espansionistiche e proto-imprenditoriali del nobile Jordan (Frank Dillane).
E, ancora, se il protagonista di Harvest, insieme alla comunità tutta e al Padron Kent – interpretato da un mellifluo Harry Melling – si rifugia in una passività antinarrativa e indisponente (che potrebbe rendere ostica la visione) è perché il suo è un atteggiamento sacrificale, quasi cristico (c’è pure il richiamo iconografico di umili drappeggi e di vesti dimesse), è l’unico possibile di fronte a un atto di prevaricazione che non può essere fermato nel suo trascinarsi dietro una rivoluzione cognitiva, un appiattimento del mondo che punta a ridimensionarlo, ad esorcizzarne l’immanenza, a mortificarlo e addomesticarlo rendendole disponibile a divenire capitale. Harvest narra la genesi del capitalismo procedendo per vie inusitate e anticonvenzionali, scandagliandone però il nucleo profondo e silenzioso, quello di una pretesa di schematizzazione e di proiezione grafica di un mondo a tre dimensioni. Lo fa con un’estetica debitrice dell’arte e della composizione fiamminga, figlia di una pittura paesaggistica, di scenette campestri che rievocano Bruegel ma perseguono, ancora, il rispetto per lo spazio.