«Questo non è un film: è un gioco. Questa è la realtà. Questa non è la realtà. La realtà non esiste» Ormai è chiaro: con Aggro Dr1ft la strada è stata tracciata, il nuovo Harmony Korine è questo, il nuovo cinema è qui. Non nel senso che Baby Invasion, presentato in Fuori Concorso all’81esima edizione della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, sia il prodromo del film del futuro: il cinema è sempre pronto ad evolversi e a mutare volto, ma probabilmente non assumerà mai i contorni così radicali e sperimentali di questo e Aggro Dr1ft come norma. No, ma Baby Invasion è il segno puntuale del regime visuale fluido del contemporaneo, indefinibile per la sua proteiforme dispersività.
Quello di Korine è un film che dal desktop movie dell’inizio si fa saggio videoludico sul confine in forma di live streaming. Il confine del visibile, che qui appare superato e oltraggiato in ogni modo (si può e si deve vedere tutto, non c’è gusto cinematografico o etica alcuna dietro all’immagine); il confine del reale, perché si centrifugano iperrealismo e finzione più spudorata in un concentrato anarchico; e il confine dello spettacolare, per cui ogni evento visivo viene appiattito omogeneamente sullo stesso livello, e convivono nella medesima inquadratura vittime brutalizzate nel sangue e volti di infanti distorti al computer. La disturbante ironia di Baby Invasion è lo specchio del cinico disincanto di internet, in cui falso e reale, serio e leggero, alto e basso sono categorie indistinte e sostanzialmente irrilevanti, e dove tutto si mescola in un contenitore promiscuo senza risoluzione critica.
Nella storia (che non c’è) del film (che non è), una sviluppatrice crea un videogioco sparatutto in prima persona in cui è possibile compiere rapine armate nelle grandi ville di proprietari ricchi, indossando degli avatar di bambini. Il gioco, però, viene hackerato e trasmesso in diretta streaming sul dark web, con la reale messa in pratica di quella violenza da parte di individui lobotomizzati, circondati da interfacce schermo, infografiche colorate, luci stroboscopiche e una sezione dedicata alla chat in tempo reale (simil-Twitch), che commenta con uno straniante sarcasmo le crude immagini che scorrono sullo schermo. Il punto di vista che noi vediamo è proprio quello in prima persona di uno di questi rapinatori, che irrompe insieme ad altri giocatori nelle case con la skin del bambino, e compie delle vere rapine in stile home invasion a danno di vittime innocenti, cui non viene degnato neanche un accenno di empatia.
Korine abbandona radicalmente l’inquadratura filmica, proseguendo il percorso iniziato l’anno scorso sempre al Lido: la nuova forma, però, non è quella magmatica e confusa di Aggro Dr1ft, in cui linee, colori, suoni e volti diventavano irriconoscibili in un Inferno tecnologico a infrarossi. Qui la pulsione demoniaca dell’immagine virtuale è evidentemente debitrice dei dispositivi di sorveglianza, delle live streaming, dei social, con l’uso di grafiche e meccanismi del videogioco.
Il cinema, inteso in un’accezione anacronistica e di reliquia, è smontato e desacralizzato da un’iconoclastia strafottente e vorticosa da far girare la testa, che non cade mai in provocazione fine a sé stessa ma resta lucida riflessione sulle nuove frontiere del visibile. È non-cinema che prima di tutto è testimonianza febbrile e convulsa delle nuove pratiche anestetizzanti mediali, in cui l’assuefazione alle immagini, onnipresenti nei nostri altrettanto ubiqui dispositivi tecnologici, è l’anticamera di una narcotizzazione del senso critico etico ed estetico. La consapevolezza cosciente è annullata a favore di una sovrastimolazione sensoriale – con la nenia psichedelica del voice over e un vero e proprio bombardamento visivo e sonoro – e di un meccanismo dopaminico di obiettivi e ricompense.
La percezione della violenza, perno tematico di Baby Invasion, è la prima vittima di questo atteggiamento dissociato dalla realtà; la violenza reale, efferata, disturbante ripresa in diretta, si traveste nella beffarda e irrisoria maschera del gioco, del deepfake – con le facce dei bambini che sembrano ricreate in A.I. – trasformandosi in pura eccitazione sensoriale. I processi di interazione con il reale vengono ludicizzati e la volontà soggettiva viene asportata a favore di uno sguardo che non è più attivo, ma viene ridotto a processo robotico e amorale di passiva registrazione.
Per capire davvero Korine, non c’è modo migliore che vedergli fare il dito medio al cinema direttamente sul grande schermo, vivendo il delirio immersivo e ipnotico di un’esperienza più vicina a un rave videoludico – grazie anche alla musica ipnotica e martellante di Burial – che alla matrice filmica originaria, di cui ora rimangono solo pochi brandelli sparsi.