April, in concorso all’81esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, è un film uditivo, ed è un film di respiri, affannosi, irregolari, sofferenti, flebili, spezzati. Respiri di corpi provati, mostrificati, esili. Respiro trattenuto è anche quello della macchina da presa, di inquadrature dilatate oltre il tempo cinematografico, in apnea fino a sabotare quello della vita. L’effetto è straniante, perché nel quadro di un’estetica tendente al documentarismo a turbare è il naturalismo applicato a una realtà compromessa nei tempi dialogici, nelle voci modulate su una nota, in individui privati di un’emotività manifesta, restituiti in uno stato di apatia assoluta.
Nina è una ginecologa, rischia la propria serenità e la propria sicurezza professionale in nome di una scelta, di una libertà. Fornisce alle donne di una comunità gretta e ignorante la possibilità di abortire, disobbedisce alla legge, rischia di compromettersi esternamente e internamente, rinuncia all’amore univoco e unilaterale per offrirsi a chi ne ha bisogno.
Con April siamo tecnicamente ai confini della non-fiction, eppure la sensazione è di assistere a qualcosa di fittizio nell’alterazione dei codici comportamentali e nella sovraesposizione al loro flusso. Un espediente che respinge e aliena e che passa anche attraverso una regia lontanissima dal proporsi soggetto-centrica, più attenta a posizionare aprioristicamente lo sguardo dello spettatore e lasciarlo in attesa che le azioni prima compiete fuoricampo si immettano nel suo campo visivo.
Si diventa entità guardanti ma impotenti, ci si intreccia con lo sguardo di Nina, poi del suo alter ego mostruoso (che ha le sembianze di una creatura deltoriana ma è cruda rappresentazione di un’anima in decomposizione, incapace di vivere una sessualità e un calore integri), nel passaggio a un POV che a volte sembra non possedere referenti. Si finisce per assistere ad un aborto consegnato in tutta la sua durata, ripreso nella discrezione del corpo e nelle porzioni di un’eloquenza secondaria che media tra la costernazione e l’emancipazione, la dignità dell’atto.
L’intento di Dea Kulumbegashvili con April è chiaro, stravolgere le abitudini di visione dello spettatore, scomodarlo per indurlo a riflettere sulle difficoltà di una femminilità non tutelata, farlo con una regia che riduce i movimenti all’osso, si fossilizza rifiutando la convulsione del campo e controcampo, che mostra il soggetto solo quando si dispone a farsi materia profilmica, che attenta ai tempi e ai modi del cinema scontrandosi e forse facendoci desiderare il rientro alle nostre abitudini di visione.