Fuori concorso alla Ottantesima Mostra del Cinema di Venezia c’è anche l’ultima opera di William Friedkin, prezioso lascito di un regista rivoluzionario come pochi, spesso fuori dal coro nel voler proporre un cinema che non seguisse i canoni estetico-contenutistici del tempo e che rappresentasse in ogni componente le ossessioni del suo demiurgo. The Caine Mutiny Court-Martial ha un valore speciale perché è insieme ritorno alle scene e commiato, e perché è in un tutto e per tutto espressione di ciò che Friedkin è stato, di come ha inteso la cinematografia, di quanta importanza ha avuto per lui un tema come l’ambiguità tra il bene e il male, tra giusto e sbagliato. Friedkin è sempre stato affascinato da storie che si immergessero in quello spazio liminale tra i due poli, che rifuggissero dall’opposizione manichea tradizionale, e il suo ultimo film, arrivato dopo ben dodici anni dall’ultima apparizione (con Killer Joe), ne è la rappresentazione didascalica
«Penso che il grande cinema sia ormai come il teatro d’opera a cui mi dedico con passione totale, un evento a misura di coloro che lo sanno apprezzare. Il resto è routine e spesso non vale la pena di farlo o di vederlo. Non dico che non ci sia un’eccellente nuova leva di artisti, non dico che il digitale ha ucciso quest’arte, ma resto convinto che ne abbiamo smarrito il senso vero e la poesia segreta». Qualche anno fa Friedkin rispondeva così ad una domanda sul suo possibile ritorno dietro la macchina da presa. È l’ultima frase a colpire e a fornire le coordinate per l’analisi di un film come The Caine Mutiny Court-Martial: Bisogna tornare al senso primigenio del cinema.
L’opera postuma del regista statunitense si propone allora di coglierlo depurando il linguaggio cinematografico fino ad approdare al minimalismo della tecnica, spogliata delle sovrastrutture, dei suoi elementi ancillari. Niente musica, niente movimenti di macchina elaborati, una sola ambientazione. Il cinema al servizio di una storia, la forma asservita al contenuto, pura apparenza di realtà. Friedkin rinnega i voli pindarici del cinema contemporaneo per ristabilire una classicità tanto tecnica quanto narrativa: parole d’ordine variazione e linearità. Regala, fedele a questi criteri, un legal drama (che sarebbe più corretto definire legal story) senza orpelli né effetti accessori. La ricostruzione essenziale ed asciutta di un processo che vede l’ufficiale Maryk (Jake Lacy) comandante in seconda della Marina militare americana, difendersi dalle accuse di ammutinamento e giustificando le proprie azioni come necessarie di fronte all’instabilità mentale del comandante Queeg (Kiefer Sutherland). A difenderlo un riluttante avvocato (Jason Clarke) interno alla Marina, deciso ad adempiere al proprio dovere ma scettico riguardo la veridicità degli accadimenti.
La scelta di un soggetto simile è la vera ragione per cui Friedkin sceglie una strada tanto sguarnita, ne è anzi la necessaria premessa, perché se il cinema può permettersi di nascondere i propri contorni è soprattutto grazie alle intrinseche qualità narrative che un processo possiede. Può farlo perché quelle messe in campo sono due forze in conflitto, che si accusano e si difendono, che obiettano e vengono respinte; perché la tensione si produce nei continui capovolgimenti di fronte, nell’attesa del giudizio. The Caine Mutiny Court-Martial ha, di sicuro, bisogno di tempo per ingranare e per farsi apprezzare, perché i personaggi si svelano durante la narrazione che fanno di sé ed è difficile averne a cuore le sorti. È complicato anche scegliere da che parte stare senza conoscere gli antefatti. Ma il processo incede privo di pause e di silenzi e mentre ci si rassegna a mantenere alta l’attenzione, ci si sorprende di essere stati trascinati dalla retorica degli avvocati, dal loro potere persuasivo, di essere spettatori del processo stesso e non del suo inscenamento.
Ci si sorprende anche di una sceneggiatura che può far scuola grazie a dialoghi ritmati, grazie a quella variazione a cui si è fatto riferimento. Il film scongiura la noia con la comicità, la smorza poi a favore di toni più gravi, si tende e si distende con agevolezza scegliendo di focalizzare l’attenzione su episodi ridicoli prima, su questioni di estrema rilevanza poi. Varia anche nel carattere e nella dialettica dei teste, nel registro linguistico e nel grado di preparazione che li distingue. E così i verbosi centonove minuti di botta e risposta continui penetrano, dinamici, nelle ambigue dichiarazioni dei personaggi, che paiono sostenere una tesi ma rinvigorire un’altra, che si inguaiano oltrepassando la sottile linea tra ciò che vorrebbero esprimere e ciò che trasmettono. The Caine Mutiny Court-Martial è un’operazione audace nella sua sobrietà, perfetto manifesto di un tema chiave della poetica di William Friedkin, che nella sua arringa finale espone ancora la propria tesi: non esiste distanza netta tra bene e male. Obiezioni? Nessuna.