Con il timore reverenziale di entrare in sala a conclusione di un festival impegnativo e dover affrontare i 175 minuti di Lubo si prende coraggio e si entra effettivamente in sala per vedere cosa ha dire Giorgio Diritti e rinnovare l’infatuazione più o meno collettiva per Franz Rogowski. A distanza di più di tre anni dal suo Volevo nascondermi, il regista pluripremiato porta a Venezia un film che per gran parte della sua durata sembra seguire la vita del suo protagonista Lubo Moser ma che verso la fine prende una svolta narrativa inaspettata.
Rogowski veste i panni di Lubo, un uomo nomade del gruppo etnico Jenisch che insieme a sua moglie e ai suoi due figli si guadagna da vivere esibendosi nelle piazze dei paesi svizzeri negli anni della Seconda guerra mondiale. Dal momento in cui sarà arruolato nell’esercito Lubo sarà vittima impotente dello sgretolamento del suo nido con la perdita dei figli, che gli verranno sottratti dalla Pro Juventute svizzera, e la morte della moglie. Di lì in poi assisteremo al suo disperato tentativo di ritrovare i figli e a quel che succederà quando dovrà infine rinunciare a questa ricerca.
Se il film si fosse chiuso su Lubo e sulla sua vicenda umana, come promesso dal titolo e dalle prime due ore e mezza, si tratterebbe della semplice meticolosità di una narrazione che si prende più tempo del dovuto a dispiegarsi. Tuttavia per l’ultima mezz’ora sembra proprio di assistere a un altro film: protagonista diventa l’accusa ai crimini della Pro Juventute, l’organo di tutela dei diritti dei bambini svizzeri, e Lubo diventa un film di denuncia, dimenticandosi completamente del suo protagonista. La perdita del focus risulta perciò una grave mancanza e un elemento di distrazione per un film che già fatica a farsi guardare. Pensando al caso assimilabile de Il signore delle formiche di Gianni Amelio, che vede anch’esso la trasformazione di una vicenda umana nel racconto di un processo unito a una denuncia sociale, sembra che questa stia diventando la tendenza di un cinema italiano che non riesce ad affrontare i suoi finali con coerenza e chiarezza.
A salvare il film vengono però in soccorso una sfilza di ottime interpretazioni, guidate da quella ineccepibile di Rogowski, e una solida scenografia che si serve dei paesaggi mozzafiato dei territori svizzeri (le riprese nel comune di Bellinzona potrebbero rimanere anche mute e infatti per la maggior parte lo sono). Sebbene fosse lecito avere un po’ di preoccupazione nel vedere Franz Rogowski padre di famiglia, abituati a quello seduttore di film come Passages e Great Freedom, l’attore non delude neanche questa volta e riesce a incarnare contemporaneamente sensualità e amore paterno. Del tutto sorprendente è l’interpretazione di Valentina Bellè, che dimostra tutta la tenerezza di un personaggio purissimo.
Per concludere, Lubo ha tutte le carte in regola per essere un potentissimo film drammatico ma probabilmente non regge la sua durata e si perde nel percorso. Non possiamo sapere quale fosse l’intenzione iniziale di Diritti, se quella di realizzare un film sulla vita di un uomo o quella di puntare i riflettori su un’ingiustizia passata, sappiamo però che alla fine dei conti non ha deciso quale fosse la strada giusta da seguire e ha voluto inserire entrambe in modo frettoloso (assurdo dirlo per un film di tre ore).