L’ultima opera di Ryusuke Hamaguchi era stata delle più folgoranti. Parliamo di Drive my car che, nel 2021, si era aggiudicato il Prix du scénario al Festival di Cannes e successivamente l’Oscar al Miglior film internazionale. Stavolta il cineasta giapponese cambia festival, portando in Concorso alla 80° Mostra del cinema di Venezia Aku wa sonzai shinai (in italiano Il male non esiste) e dimostrando di non aver affatto perso l’estro fin qui dimostrato.
La storia alla base del film è tanto semplice quanto paradigmatica. Le giornate di Takumi (Hitoshi Omika) e della figlia Hano (Ryo Nishikawa) passano lente nel villaggio di Mizubiki, zona collinare incontaminata in cui gli abitanti vivono a contatto con la natura. Un giorno due impiegati in un’azienda televisiva – Takahashi (Ryuji Kosaka) e Mayuzumi (Ayaka Shibutani) – vengono inviati per promuovere il progetto di costruzione di un glamping, che verrà costruito vicino al villaggio. Gli abitanti della comunità si oppongono al progetto, evidenziandone i pericoli e mettendone a rischio la riuscita. Takahashi e Mayuzumi, con la guida di Takumi, inizieranno ad entrare sempre più in contatto con uno stile di vita così differente dal proprio, finendo ben presto per subirne l’influsso.
Fin dai titoli di testa Il male non esiste recupera le stesse atmosfere di Drive my car, fatte di momenti lenti e carichi, silenzi affidati ai rumori dell’ambiente e lunghi tratti sorretti dalla magnifica colonna sonora di Eiko Ishibashi. Una modalità di messa in scena che non rende certo agevole la fruizione della pellicola (il primo dialogo avviene dopo più di dieci minuti), ma che ricompensa l’attenzione dopo uno scoglio iniziale. Se quindi Hamaguchi mantiene lo stile della sua opera precedente, cambia invece l’essenza di ciò che è rappresentato, in cui il lirismo e la poeticità lasciano spazio alla materialità e semplicità d’espressione, l’astratto delle relazioni umane viene sostituito dalla concretezza del rapporto con la natura.
Perché il racconto che Il male non esiste veicola è essenzialmente una parabola ambientalista sugli opposti modi di rapportarsi – e appropriarsi – del mondo in cui viviamo. Quello degli abitanti del villaggio, preoccupati di rispettare l’equilibrio dell’(eco)sistema in cui si trovano; e quello degli imprenditori, dediti soltanto ad imporre i propri interessi. Tutto, nel progetto del glamping, si riduce al profitto e all’economia monetaria, invece di considerare l’economia del benessere generale della comunità, la qualità della vita – e quindi l’impatto ambientale. Significativamente a mediare tra le richieste degli imprenditori e le necessità degli abitanti vengono mandati due lavoratori del mondo dello spettacolo, metafora che in qualche modo esplicita il compito che il cinema e l’audiovisivo devono assumere nel mediare e veicolare tali tematiche. Compito che, in senso metatestuale, rivela lo stesso obiettivo di cui si fa carico il film stesso.
Come in Drive my car, Il male non esiste ripresenta il topos del viaggio in auto come incontro di caratteri, seppur assumendo una connotazione differente nel contesto ambientalista della storia. Se prima l’auto era il luogo liminale che connetteva l’intimità della vita privata alla controparte pubblica della propria vita sociale, qui si fa invece mezzo che collega la città, la società macchinizzata dell’economia monetaria alla civiltà più equilibrata e basata sul contatto con la natura. L’intera pellicola si compone, di fatto, di poche sequenze molto lunghe, nelle quali da una parte le sezioni dialogate hanno il compito di far emergere con efficacia il conflitto, mentre estesi momenti affidati alla colonna sonora ne cristallizzano l’intensità e la posta in gioco, evidenziando al contempo il legame tra gli elementi della storia e il contesto in cui si muovono. Sorprendenti, infine, sono i momenti di umorismo, che evidenziano in maniera caustica la distanza tra le esigenze del mondo del denaro da quelle della realtà ambientale.
A due anni dal successo mondiale, Ryusuke Hamaguchi torna con un’opera che abbandona i toni relazionali e personali del passato per veicolare una parabola altrettanto intima e diretta alla collettività. Una storia che con intensità affronta i conflitti tra l’operato umano e le necessità della natura, con un finale agrodolce che mette in guardia sulla rottura dell’equilibrio precostituito e sul dolore, concreto e atavico, che ne deriva.