Dopo una breve incursione nell’industria americana con Soldado e Senza rimorso, Stefano Sollima torna nella sua città natia per concludere la propria trilogia dedicata alla “Roma criminale” e lo fa presentando il suo nuovo film, Adagio, alla Ottantesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Abbandonare il cinema statunitense e fare ritorno alla visione nostrana significa staccare il piede dall’acceleratore di un’azione che si giustifica da sé e poggiarlo sul freno dei problemi familiari e delle diatribe amicali, dei torti del passato e delle deviazioni dei poteri forti.
Manuel (Gianmarco Franchini) è un sedicenne invischiato in un giro più grande di lui, che decide di tirarsi fuori quando è ormai troppo tardi e braccato dalle forze dell’ordine che lo hanno “assoldato”. Il padre (Toni Servillo) non può aiutarlo, è un ex membro della banda della Magliana ma l’Alzheimer lo sta consumando. Si rivolge allora a Pol Niuman (Valerio Mastandrea) e al Cammello (Pierfrancesco Favino), conoscenze criminali del padre, per chiedere protezione e fuggire da morte certa.
Sollima ha il merito di essere stato precursore, nel panorama italiano, di un radicale cambiamento che lo ha visto affidare le proprie storie a figure antieroiche, pioniere di quella rivoluzione che ha radici nell’adozione di una prospettiva nuova che riscrive le qualità del protagonista, che proviene da una narrazione tutta statunitense iniziata con I Soprano e compiuta con Breaking Bad. È stato con la serialità moderna fatta di cattivi, amorali e carismatici, che si è aperta una breccia nella televisione italiana grazie a Romanzo Criminale. Ma la tv non è l’unico medium ad essere (stato) disabitato da questi “rough heroes”: la produzione cinematografica italiana si è sempre concentrata su crime stories che avessero come protagonisti rappresentanti della legge, investigatori privati, “le forze del bene”.
Al regista romano va quindi, a priori, assegnato un punto a favore per il coraggio di proporre qualcosa di difficilmente concepibile in passato. Il secondo punto lo ottiene, con Adagio (e con i lavori precedenti), per la capacità di adattare i topoi del thriller hollywoodiano alla criminalità italiana, ai personaggi brutti e cattivi del Bel Paese e di cucirgli addosso personalità forti, irresistibili. Agli americani Sollima sottrae anche una maniera di scrivere che è figlia della formalizzazione, nella produzione statunitense, di uno schema narrativo rigido, quadrato, funzionale. In Adagio tutti i personaggi hanno il proprio arco di trasformazione, definito, preciso come nelle storie a stelle e strisce. Tanto che risulta difficile stabilire chi tra il Cammello di Piefrancesco Favino e il giovane Manuel sia il protagonista: hanno entrambi una chiamata all’avventura, entrambi sperimentano un rifiuto; il primo, però, è una poco ortodossa figura mentoriale.
Seguendo l’esempio americano, comunque, il regista dà vita ad una narrazione in cui nulla è fuori posto, in cui tutto fila liscio e gli ingranaggi sono ben oliati, e lo fa abbandonando la strada dell’autorialità senza comunque rinunciare a sequenze che, fuori dal coro, risultano evocative e poetiche come non suole confarsi al thriller d’oltreoceano. Fuori posto non sono nemmeno gli attori scelti per interpretare i membri ritirati della Banda della Magliana: Pol Niuman, per Manuel un Tiresia della criminalità romana (è cieco e predice al ragazzo il percorso verso la salvazione) ha il volto di un Mastandrea breve ma intenso; Servillo giganteggia nei panni di un padre con “la testa che va e che viene”; Favino stupisce ancora per una versatilità che pare non avere confini, cannibalizzando lo schermo ad ogni inquadratura.
A Stefano Sollima piace vincere facile. Di certo contribuisce una scrittura dei personaggi che, complice anche l’opposizione di esseri ancora più spregevoli e crudeli (ancora un grande Adriano Giannini dalla parte del “bene”) dei protagonisti, li rende, appunto, eroici, investiti da un processo di mitizzazione che poi il regista pensa bene di invertire nelle scene che intramezzano i titoli di coda, come a tirarli giù da un pantheon che, corrotto, non può sussistere. Non c’è nulla che Stefano Sollima non faccia bene in Adagio, equilibrato e rigoroso nella sceneggiatura (scritta a quattro mani con Stefano Bies) e nella regia, privo di sbavature in ogni elemento della messa in scena. Adagio è la chiusura perfetta per un’ideale trilogia che adesso vede i criminali giungere al loro atto finale, che crede e ripone le proprie speranze nel ricambio generazionale e nell’interruzione del passaggio di consegne.