#Venezia79: Ti mangio il cuore, la recensione del film di Pippo Mezzapesa

Ti mangio il cuore

Promontorio del Gargano, arida regione settentrionale della Puglia. Un territorio poco raccontato, fuori dalle trame di ogni genere di storia. È qui che si svolge la tragica azione di Ti mangio il cuore, presentato nella sezione Orizzonti della 79° edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Tratta dall’omonimo romanzo e diretto da Pippo Mezzapesa, la pellicola è affidata ad un bianco e nero che trasfigura luoghi e figure, immagini arcaiche come la terra in cui è ambientata.

Di fatto la storia di Ti mangio il cuore, ispirata ad eventi reali, è quella di una faida tra famiglie mafiose, rilettura gangsteristica e meridionale della storia di Romeo e Giulietta. Una faida assopita, quella tra Malatesta e Camporeale, che (ri)nasce dal contrasto tra pulsione erotico-amorosa e le leggi dell’onore. Un tema che emerge ben chiaro fin dalla prima scena, quella di una processione dedicata alla Madonna, la cui statua viene però derubata da ogni attenzione da un’altra presenza femminile. È quella della protagonista Marilena (Elodie), una Maria Maddalena, una Vergine del peccato che esita nel coprirsi il volto con il velo. È lei il centro del film, che ruba la scena ad ogni altra presenza. Per tutta la prima parte della pellicola la macchina da presa indugia sulla sua immagine, mina erotica che minaccia di esplodere ad ogni contatto.

Ed è quello che succede dall’incontro con Andrea (Francesco Patané), figlio del boss rivale, in una passione amorosa che a conti fatti serve più come miccia per accendere l’azione che da traino per una vera e propria storia romantica. I due protagonisti, infatti, una volta messe in guerra le rispettive famiglie, sembrano imboccare strade diverse. Da una parte il nuovo boss della famiglia Malatesta, che da agnello incapace di uccidere si trasforma in lupo spietato (come in ogni classica storia di mafia da Il Padrino in poi). Dall’altra Marilena, personaggio modellato in costante parallelo/contrasto con la figura sacrale della Vergine, nel suo essere signora del peccato il cui grembo impuro è portatore di un nuovo avvento, ossia l’erede del boss. In mezzo le due figure genitoriali, quella del vecchio boss (Tommaso Ragno), che esce di scena in quanto troppo ingombrante per l’evidente complesso di Edipo del figlio; e quella della madre-prima sposa di Andrea (Lidia Vitale), verso la quale tende la fedeltà e gli istinti filiali del giovane capofamiglia.

Ti mangio il cuore spicca per prima cosa per le sue qualità visive. Esteticamente molto curato, il film di Mezzapesa adotta un bianco e nero estremamente funzionale, che scava le figure e le fa emergere bene dallo sfondo, imprimendo ai volti una sorta di presenza auratica, come fossero dei santi. E del resto l’immaginario sacrale è centrale nella costruzione del film, incorniciato simmetricamente da due processioni che vedono nel loro svolgimento il principio e la conclusione della storia. Ad una pellicola del genere, d’altra parte, non si può chiedere certo originalità dell’intreccio, costruito come già detto attorno a meccanismi e richiami classici. Sotto certi aspetti Ti mangio il cuore assomiglia molto, troppo, agli innumerevoli film di mafia ambientati nel meridione italiano, storie di brutalità e omicidi in cui la violenza emerge come un valore fine a se stesso.

Le ragioni dell’opera vanno perciò rintracciate nella sua ambizione estetica e formale, nonché sua valenza mitica e arcaica, che frustra l’attesa di rivolgimenti inaspettati. Un film che trova la sua musa nell’esordiente Elodie, capace di occupare lo schermo con un’energia gravitazionale ben più potente dell’escalation di violenza scatenata dal suo corrispettivo amoroso.

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