Dopo aver conquistato pubblico e critica con lo straordinario The Father, il regista e drammaturgo Florian Zeller torna al cinema concludendo il dittico con The Son (trailer), in Concorso alla 79° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Di conseguenza enormi aspettative erano riposte in questo film, un po’ come un figlio da cui ci si aspetta che segua le orme del padre.
Cominciamo dal dire che, sul piano concettuale, The Son si presenta come la perfetta immagine speculare di The Father, due facce della stessa medaglia. Adattando di nuovo una sua pièce teatrale, Zeller si sposta dai temi della senilità per adagiarsi su quelli della giovinezza, un’età segnata dalla difficoltà ad essere compresi e dal contrasto con le figure genitoriali. Se poi il predecessore dedicava il proprio punto di vista all’Alzheimer quale disturbo tipico delle persone anziane, The Son trova una sua controparte in una storia di depressione, nella figura di un adolescente incapace di vivere come tutti gli altri.
Peter (Hugh Jackman) è un uomo di successo che ha deciso di rifarsi una vita con la giovane Beth (Vanessa Kirby), da cui ha appena avuto un figlio. Il loro apparente equilibrio familiare è messo in crisi quando Kate (Laura Dern), l’ex moglie dell’uomo, gli rivela che il loro figlio adolescente non va più a scuola, è sempre distaccato e sofferente, fatica a comunicare con gli altri. Peter cerca quindi di aiutare Nicholas (Zen McGrath), spinto anche dai sensi di colpa per averlo abbandonato e desideroso di essere un padre migliore di quello cinico e assente che lui ha avuto (Anthony Hopkins).
Quella di The Son è una storia che, ancor più di The Father, fa leva sulla forza dei legami familiari, così come sull’amore e sui sensi di colpa. La colpa di un padre che sente addosso la responsabilità della felicità di un figlio, nonché la frustrazione e il peso della sua incapacità nel salvarlo. Il personaggio interpretato da Hugh Jackman è straordinariamente universale, dotato di una valenza ambigua e diviso tra l’essere parte della sofferenza del figlio (lo ha abbandonato per una nuova famiglia) e il suo disperato sforzo di rimettere a posto le cose. Un padre, quindi, la cui personalità è scissa tra un meccanismo di colpevolezza e un puro istinto affettivo. Ma l’opera di Zeller, più che della forza dell’amore, racconta dell’insufficienza di tale sentimento di fronte all’incomprensibilità del dolore. I genitori di Nicholas non sono infatti in grado di aiutare il ragazzo, non capiscono il motivo del suo comportamento, cercano spiegazioni razionali per un disturbo che fuoriesce dalla razionalità. Di conseguenza i loro propositi, per quanto spinti da un sincero desiderio di aiutare il figlio, non possono che essere inutili.
Il tema dell’incomprensibilità è rivelato dalla stessa messa in scena. Se in The Father lo spettatore era portato a condividere il punto di vista alterato del protagonista, stavolta lo sguardo è posto prevalentemente al di fuori, immedesimandosi nel ruolo di un genitore e nella sua frustrazione di fronte ai problemi del figlio che non comprende. Allo stesso modo, nel primo film l’appartamento in cui la storia era ambientata giocava un ruolo fondamentale nell’espressione del disturbo del protagonista. In The Son la questione della scenografia si complica, anche perché il film assume più punti di vista, sia quello interno (del ragazzo) che quello esterno (dei due genitori). Ciò si riflette nella doppia ambientazione, divisa tra l’appartamento della madre e quello del padre, i quali sono specchio dell’umore del ragazzo nei confronti dei due. In questo caso però la scenografia è lineare e realistica, perché mentre in The Father era necessario spiegare (anche attraverso i cambiamenti negli ambienti) la natura della malattia (l’Alzheimer), al contrario The Son non altera il punto di vista perché non ha interesse ad esplicitare la consistenza della depressione, preferendo assegnargli uno spazio neutrale di inspiegabilità.
Attraverso The Son il regista racconta una storia volutamente universale, all’interno della quale sembra dirci che l’amore non è abbastanza. Non importa quanto una persona ami un’altra o quanto sforzo possa impiegare per farla star bene, a volte semplicemente neanche un padre può salvare il proprio figlio. Il dilemma di Peter è il dilemma di ogni persona che ama, quello di essere responsabile per il bene dell’altra senza accettare di non avere gli strumenti per aiutarla. Allo stesso tempo il fascino del suo personaggio è complicato dal suo duplice ruolo di genitore e di figlio, in fuga dagli errori del suo stesso padre.
The Son è un’opera che parla in modo lucido della contemporaneità, situandosi in un presente segnato dall’esplosione dei disturbi mentali a seguito della pandemia. Un film tanto ambizioso quanto scivoloso, con un tema che si presta facilmente ad essere banalizzato a causa della diffusa ignoranza sulla depressione (soprattutto quella giovanile). Allo stesso tempo il secondo film di Florian Zeller, nonostante la profondità della sua storia, difetta in una costruzione carente di ritmo e di dinamicità, con un finale scontato e forzato, presentando un racconto a tratti statico specie se paragonato a The Father. The Son, insomma, soffre dello stesso confronto alla base della sua storia, faticando rispetto al suo predecessore a costruire un dramma altrettanto efficace. Proprio come un figlio gravato dal peso delle aspettative.