A metà tra il tratteggio immaginifico e l’anima da reportage da cui ha avuto origine, il film della documentarista Alice Diop segna il suo debutto nel cinema di finzione. Ma Saint Omer, in Concorso alla 79° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, trascende gli schemi e le categorie narrative e si dimostra un racconto di rara potenza concettuale per quanto ingabbiato, come vedremo, in una forma espositiva a tratti frustrante e volutamente statica.
Ci troviamo a Saint Omer, cittadina francese all’estremità settentrionale del paese. Qui, nell’aula di un tribunale, assistiamo al sovrapporsi di due drammi, che fanno da prodotto ad un terzo, originario e compiuto. Da una parte la tragedia di Laurence Coly (Guslagie Malanga), giovane immigrata senegalese, accusata di aver ucciso la figlia di un anno abbandonandola alla corrente marina. Dall’altra la partecipe Rama (Kayije Kagame), anch’ella donna di origini africane, protagonista tecnico del racconto e sguardo allineatore del punto di vista spettatoriale. Spettatrice a sua volta del processo e in cerca di ispirazione per uno studio sul mito di Medea, la giovane scrittrice si ritrova immersa in un doloroso vortice di immedesimazione con l’imputata, nella ricerca delle colpe e dei fattori che hanno portato una donna e una madre ad un gesto tanto tremendo.
La situazione che Alice Diop porta a processo, metaforicamente e non, assume sulle prime una forma univoca, inequivocabile, quella di una colpa in attesa di un facile giudizio. D’altronde come si potrebbe non condannare una madre rea dell’uccisione della propria figlia? Come evadere dall’inevitabile sentimento che associa un atto del genere ad un qualcosa che viola la stessa natura umana? Sono questi i princìpi con cui lo spettatore e i presenti in aula si accostano al caso di infanticidio, giudizi apparentemente netti e incontrovertibili come la granitica regia che ci accompagna durante le fasi del processo. Veniamo così ad essere partecipi, con le testimonianze dell’imputato e del marito, di uno scavo intimo nel contesto della tragedia, in un meccanismo di immedesimazione che reca un certo disagio. Il disagio che si crea, alimentandosi via via, nello scoprire che le motivazioni dell’imputata, madre infanticida, sono meritevoli di compassione e oggetto di empatia.
Perché se c’è una reale tragedia, nella storia di Saint Omer, è proprio il suo mettere in discussione l’apparente condannabilità di questa Medea contemporanea, donna a giudizio in terra straniera, giovane genitrice portata drammaticamente ad una maternità contro natura. Ne è consapevole Rama, che con estremo sgomento comprende la propria vicinanza con l’imputata, in una condivisa condizione di estranea, di donna e di madre, nonché nella difficoltà a sopportare il peso di tali attributi in una società ad essi ostile.
La regista applica a questa opera di finzione le regole del documentario, fornendo una rappresentazione statica e a momenti didascalica, con l’obiettivo di mettere sotto gli occhi dello spettatore una realtà a cui opporre uno sguardo critico e discernitivo. Ne conseguono lunghi momenti affidati ad inquadrature fisse, in cui ad occupare lo schermo è la sola testimonianza delle parti del processo. È vero, infatti, che la pellicola della Diop potrebbe calzare altrettanto bene la forma romanzesca, tale è la verbosità della sua messinscena. Quel che si può discutere del film, al di là della sua potenza teorica, è quindi soltanto il suo ritrarsi volontariamente dall’essere prodotto d’intrattenimento, con una costruzione ostentatamente prolissa e statica. D’altra parte Saint Omer è un’opera dal forte impatto significativo a cui nulla si può dire dal punto di vista della qualità e complessità concettuale; in questo senso il film si presenta propriamente quale opera d’arte, evadendo da trappole retoriche e dalla ricerca di una superficiale godibilità.
Nonostante una forma rigida e priva di guizzi, Saint Omer segna l’esordio finzionale della regista Alice Diop nel segno di un’opera potente, complessa e ambiguamente conturbante. Un racconto che affida ad echi mitologici una riflessione sulla difficoltà di essere donna e sul mistero della maternità, colpendo nell’intimo uno spettatore che è scisso tra l’istinto della condanna e il dolore della comprensione.