Princess di Roberto De Paolis si apre all’interno di un bosco irradiato dai fasci di luce di un sole mattutino. Sembra di trovarsi nel bel mezzo di un luogo ameno, un piccolo angolo di mondo magari incontaminato e popolato chissà da quali creature. È un’inquadratura che vuole fantasticare su una realtà altra, che porta lo sguardo dello spettatore verso una pista dove il disincanto evocato è il miraggio di chi vuole guardare le cose mettendogli un’aura attorno, mitigarlo, colorarlo perché così è anche più semplice guardarle poi in faccia.
In questo bosco di mitologico però non c’è quasi nulla, se non la preghiera iniziale a metà tra sacro e profano di Princess, che tra questi alberi ci lavora e chiede a Dio di augurarle una giornata ricca di clienti, denaro e un po’ di gentilezza. Più tardi sarà sempre lei, Glory Kevin, che è una reale prostituta nigeriana, a chiarificare ancora meglio come il bosco non sia nemmeno per scelta, ma semplicemente il risultato di un pragmatismo viziato da un’immancabile goccia di razzismo. «In città ci lavorano le bianche, alle nere spetta il bosco».
Il film di De Paolis, in apertura della sezione Orizzonti della 79esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, galleggia a metà tra il documentario e la fiction, ponendosi in una zona di confine dove a prendere il sopravvento è il reale vissuto di questa giovanissima ragazza chiamata a interfacciarsi con una quotidianità fatta di clienti (anche loro talvolta reali) e un canovaccio sentimentale che la intreccia a Corrado, il personaggio dell’unico attore professionista ricorrente, Lino Musella.
E che energia contagiosa quella che sprizza fuori da Kevin, che impeto di tenersi stretta la vita tra le mani che emerge fuori dal modo in cui si impone sopra la macchina da presa che la accompagna lungo tutto il corso del film. È lei che conduce le sue danze ed è lei che Princess deve seguire, con i suoi ritmi, le sue regole e aspirazioni, dove la traccia dello script è arricchita da una spontaneità che ai momenti da lieto fine fa seguire sempre l’impatto con la durezza, e sincerità, della cosa reale. Come quando dice al suo impacciato corteggiatore Corrado di non stupirsi del fatto che nonostante la sua gentilezza gli chieda del denaro per passare tutta la notte con lui.
L’idea del lavoro, del porsi sotto il mantello della transazione economica cambiando spesso aspetto e nome a seconda di chi le si para davanti, le permette di creare uno schermo, di stabilire il confine della protezione che la mantiene al sicuro dal pericolo di rimanere ferita psicologicamente dalla crudezza della propria attività. Per questa ragione una volta che il corpo è alla mercé di chi vuole comprarlo (e che il film non pone mai in giudizio, anzi solleva una questione quasi antropologica sui perché di chi deve usufruire di quel servizio) l’unica forma di prossimità all’affetto restano i baci, che Princess non concede mai e che all’interno di un rapporto che nasce non possono essere concessi con troppa leggerezza.
Notevole è il tatto con cui il regista resta vicino alla sua protagonista e si lascia trascinare dalle sue dis-avventure che in una maniera o nell’altra trovano il modo di essere rovesciate, di aprirsi a un ottimismo forse impensabile nel cuore di questo angolo verde, a due passi da Ostia, che si fa ricettacolo di un’umanità e delle sue motivazioni. Princess ci cammina in mezzo e taglia in due uno spazio diviso tra le brutture di un’esistenza marginale e la capacità di rendere vivido il vissuto di ogni giorno, valorizzarlo anche dopo una corsa disperata nella notte.