#Venezia79: Pearl, la recensione del film di Ti West

Pearl è una sognatrice. Immagina di diventare una ballerina, una star. Sogna, la giovane donna, per evadere dalla realtà opprimente che la circonda, dalla vita di reclusione a cui sembra essere condannata. Il padre tetraplegico, la madre fervente religiosa, una fattoria nel midwest americano che sembra più una prigione che una casa. Ma Pearl sa di avere la stoffa per abbandonare tutto questo, per spiccare il volo. Perciò sogna. E lo fa attraverso il cinema.

È questo lo spunto da cui parte Pearl (trailer), film di Ti West presentato Fuori Concorso alla 79° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Prequel dell’acclamato (almeno in patria) X – A Sexy Horror Story, il nuovo capitolo torna indietro nel tempo per portare alla luce il passato dell’antagonista del suo predecessore, la vecchia omicida che qui appare nella sua giovinezza. Con la protagonista interpretata ancora una volta da Mia Goth, vera anima dell’operazione, Pearl è legato a doppio filo con X, un nodo talmente stretto da risultare inscindibile. Due atti di una stessa storia, storie di sognatrici che vedono nel cinema un mezzo di rivalsa sull’aridità che le circonda, ma che in ultima analisi si trasforma in una discesa verso gli inferi.

Appare subito chiaro come Pearl, a dispetto dell’aria da melodramma con cui è confezionato, condivida la natura della sua opera madre: l’orrore. Un orrore trascinato dalla sua protagonista, una novella Dorothy che vuole a tutti i costi lasciarsi alle spalle la sua fattoria. Ma stavolta non c’è nessun tornado che interviene a portarla nel regno di Oz. Perché il tornado che si abbatte sulla sua vita non è altro che la sua stessa follia, lo scoppio di una personalità disturbata che esplode investendo ogni personaggio con cui entra in contatto.

Pearl è, ancor prima che un horror di qualità, un’operazione intelligente. Per la seconda volta Ti West costruisce un omaggio al cinema del passato facendone metafora di una condizione esistenziale, volàno per l’espressione di una personalità alterata che, attraverso il mezzo cinematografico, prende contatto con la sua seppur deviata natura. Se in X il regista aveva voluto poggiarsi sul B-movie e lo slasher anni ’70, stavolta il riferimento, ancor più riuscito, è al cinema muto e al melodramma dei primi decenni del cinema. Una fotografia patinata e dei titoli di testa in tema ci portano infatti nel 1918, sul finire della Prima guerra mondiale, nonché nel periodo che segna l’ingresso del cinematografo all’interno dell’immaginario collettivo. La giovane Pearl contrappone la sua vita di campagna proprio al mondo etereo dello schermo, o ancor più quello dell’immaginazione. Il suo è un dramma tanto estremo quanto tipicamente contemporaneo, quello di una ragazza che perde il contatto con la realtà che la circonda rifugiandosi nel mondo affascinante e illusorio dell’immagine. Così facendo la sua diviene una vera e propria ossessione per la celebrità (<<I’m gonna be a star>>) in una parabola che da nascente astro dello spettacolo la vede tramutata di angelo decaduto e sterminatore.

Menzione speciale per la bellissima Mia Goth, dolce e spietata, sognante e crudele, una ninfetta dagli occhi grandi che si trasforma in sanguinaria mietitrice. In lei Pearl trova la più perfetta riuscita, in un’operazione che ibrida nostalgia e orrore in un prodotto manieristico sapientemente confezionato. Dopo l’incursione di X, con questo secondo capitolo Ti West completa il suo omaggio al cinema d’altri tempi scavando in parallelo ancora più a fondo nella connessione tra bellezza e follia, portando così a Venezia un film intelligente, perfetto nei suoi aspetti formali e in grado di aggiornare il genere horror con un’opera sapientemente riuscita.

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