C’è un determinato cinema d’autore che pare non potersi esimere dal subordinare il proprio racconto all’estetica. Potremmo aprire un capitolo a parte solo su questa definizione, ma intendiamola qui nel semplice campo del gusto, del senso delle forme. Prima di tutto viene la scelta di formato, che spesso si riduce, poi la dilatazione dei tempi, le lunghe pause di riflessione di personaggi che scrutano il vuoto, magari fumando. Infine, forse, arriva qualche briciola di quel racconto che pure tutta quella estetica dovrebbe aiutarci a cogliere. Spesso e volentieri non lo fa.
E questo cinema è anche quello di Andrea Pallaoro, che torna in Concorso alla 79esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica con Monica, secondo ritratto di donna dopo quello del film precedente. Era Hannah, nel 2017, fatto e finito sulla protagonista di una Charlotte Rampling poi vincitrice della Coppa Volpi. Già lì non c’era praticamente altro che il rigore formalistico di una regia millimetrica, nelle intenzioni significante di un abbozzo di dramma familiare cosparso qui e lì con un paio di briciole.
Monica non cambia più di tanto registro. Parte con una scelta di un 4:3 puramente espositivo (sia mai che ci si trovi della semantica), una messa in cornice pulita e visivamente di qualità grazie anche alla fotografia corposa di Katelin Arizmendi. Nessuno contesta a Pallaoro il gusto, perché se c’è una cosa che sa fare è il saper mettersi all’interno di una stanza e collocare nel mezzo di questo spazio la macchina da presa. E fino a qua, tutto okay.
Il fatto è che la ricercatezza dell’immagine arriva sempre prima di quello che racchiude al suo interno. Un avvicendarsi tra sceneggiatura (a cura di Pallaoro e Orlando Tirado) e regia che assume i contorni di una lotta impari perché l’autore favorisce sempre la seconda sulla prima. Una storia in questi quadretti tanto affascinanti quanto a un certo punto sterili ci sarebbe pure. È quella di un ritorno a casa dopo lungo tempo, del tentativo di riavvicinamento di una donna transessuale (Tracy Lysette) con una madre malata che non vede da prima di aver portato a termine la transizione e che sembra non riconoscere la propria figlia.
Gli ostacoli da mettere in gioco sarebbero molti. Di conflitti da prendere di petto non mancherebbero. Eppure Pallaoro da questo canovaccio tira fuori un tiepido susseguirsi di vignette, che mescola confusamente assieme l’iniziale capacità di Monica a rapportarsi con questo ricongiungimento alla forzata, quanto estemporanea, esposizione del benessere della donna con il proprio corpo. Ce la rende in realtà anche abbastanza antipatica in un pigro strepitare tra soliloqui al telefono, corse in macchina e lunghi silenzi che del suo malessere dovrebbero raccontarci molto.
Suggerimenti e cenni che non ci raccontano invece nulla, anzi appiattiscono irrimediabilmente la figura di una protagonista in potenza ricca di fascino e di incongruenze da mettere in ballo. E invece niente, tutto si sciupa nella patina di una superficie dello schermo ammiccante e spudoratamente fiera della sua epidermide, banalizzando Monica con una serie di giochi al ribasso che con la scusa di dare valore ai pensieri inespressi della donna la rendono un oggetto inerte più di quanto, davvero, meriterebbe.