Sulla figura di Santa Chiara si sarebbe potuto costruire di tutto e di più. Un film religioso, un film d’avventura, un musical, un dramma puro. Il personaggio è tanto ricco da parlare da sé. Eppure Chiara di Susanna Nicchiarelli, presentato in Concorso alla 79esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, è un ibrido insipido di tutte queste cose, un netto passo indietro rispetto a un film già non perfetto come lo era Miss Marx.
Non si capisce quale registro abbia voluto adottare Nicchiarelli per portare sullo schermo la santa, fondatrice dell’ordine delle Clarisse e in un primo momento collaboratrice di San Francesco d’Assisi. Nelle intenzioni vorrebbe essere il ritratto di una donna rivoluzionaria per i propri tempi, come lo sono un po’ tutte le donne prese a soggetto dei film della regista. Nella pratica ne viene fuori un contorno sbiadito e colpevolmente anticarismatico, forse il tratto più contraddittorio di un’opera su di una ragazza che fin da giovanissima è divenuta polo d’aggregazione spirituale e sociale.
A prestarle il volto è Margherita Mazzucco, la Lenù de L’amica geniale, che purtroppo contribuisce non poco al totale appiattimento di un personaggio scritto (sempre da Nicchiarelli) per passaggi chiave che chiave non sono. Basti guardare anche alla collocazione dei riferimenti temporali (1211, 1216, 1220, ecc.) che paiono appiccicati come contestualizzazione sopra una messa in scena che però è circoscritta nell’eterea dimensione monasteriale di Chiara e delle sue sorelle, dove quindi c’è solo un qui ed ora che volutamente (e magari anche con un suo senso) ignora lo scorrere del tempo al di fuori di questo spazio.
Perché quello di Nicchiarelli è un film che si rema contro dall’inizio alla fine, che nei momenti di povertà di struttura drammaturgica si rifugia nel grembo di stonatissimi slanci sopra le righe. Lo fa con i coretti collettivi e coreografati che mettono su le prime sorelle che si uniscono alla causa di Chiara (ma perché? Come la conoscono? Cosa ha fatto?), lo continua a fare con un’insistenza ai limiti del kitsch tra improvvisi zoom della mdp e i goffi miracoli di cui si rende artefice la santa. Cifra stilistica? A metà, perché è un atteggiamento sbilenco nel corso di un film poco uniforme anche dal punto di vista estetico.
La problematica più grossa sta forse nel rapporto che lega Chiara all’altra grande figura dell’opera, Francesco (un Andrea Carpenzano in sottrazione). Come avveniva in maniera abbastanza discutibile già a partire dal titolo in Miss Marx, che perlomeno aveva una buona solidità in regia, anche qui la figura femminile non si esime dall’essere raccontata in funzione del rapporto che la lega alla dimensione del maschile. E va bene se questo necessario filo conduttore si pone come la base per ragionare sopra la presa di distanze e consapevolezza del proprio ruolo.
Ma Chiara, vuoi per una messa in scrittura parziale, vuoi per un fuori fuoco che accompagna costantemente il personaggio, emerge per davvero solo nel momento in cui è Francesco a mettere un paletto o a uscire fuori dall’equazione. Un discorso che vacilla anche nel momento in cui dall’influenza di Francesco si passa a quella ben più stringente del neopapa Ugolino (Luigi Lo Cascio), dove la libertà della rivoluzione portata da Chiara è costretta a essere comunque delimitata all’interno di un raggio d’azione imposto dall’uomo.
Non si possono cambiare i fatti, no, ma il cinema offre l’opportunità di manovrarli, renderli funzione del proprio assunto e della propria visione, di raccontare la grandezza all’interno delle maglie, cosa che a Chiara proprio non riesce, offrendosi in definitiva come il film più moscio e involontariamente conservatore tra quelli della regista.
questa volta forse non aveva due buone biografie italiane (Nico e Miss Marx) che le hanno regalato ottimi “spunti” per due buoni film.