Usciti dalle a dir poco impegnative tre ore di Bardo, l’ultimo film di Alejandro González Iñárritu presentato in Concorso alla 79esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, viene da chiedersi quanto spazio ancora ci sia per trattare queste storie in questa maniera. Certo, alla necessità di espressione individuale di un singolo artista non si può mai contestare nulla, ci mancherebbe. Per molti fare film è un’operazione più vicina alla psicanalisi che a un patto con il pubblico, e lo sappiamo.
Appare però sin da subito tronfio il fluviale racconto di questo quotatissimo giornalista (Daniel Giménez Cacho) alle prese con un tormento personale che lo rosicchia alla punta dei piedi. Un po’ per un urlatissimo complesso dell’impostore che lo lascia sospeso in uno spazio indefinito tra la sua casa d’origine, il povero e sottomesso Messico, e quella d’adozione, i ricchi e prepotenti Stati Uniti; un po’ per un irrisolto lutto che spacca in due il suo frammentato nucleo familiare ma che, a ben guardare, si alimenta più del proprio girare attorno al dramma che al dramma di per sé.
Viene da domandarsi se sia ancora interessante, o quantomeno compatibile con il buonsenso, metterlo sul piedistallo questo dramma di una figura privilegiata che impiega centottanta minuti per arrivare alla catarsi del proprio borghese senso di colpa, costringendo noi con lui a partecipare alla lacerazione del benestante che soffre attraverso l’arte la condizione del popolo. Forse è fuori tempo massimo anche l’idea di mettere qui e lì le mani avanti, di anticipare le critiche e far finta di tamponarle riconoscendo che sicuramente già ci saranno, come è fuori tempo massimo utilizzare la chiave asincrona dell’onirico per tessere le fila di questo estro incupito dai fantasmi che lo circondano.
Si pensa, e come si potrebbe non farlo quando è Iñárritu stesso a cercarne la via, all’opera di Fellini in 8 ½ per i vertiginosi slanci del racconto per sogno, ma pure ad Amarcord per come mette in scena il ricordo di impulsi di infanzia e il desiderio del seno. Ma nel mezzo del vortice dei lunghissimi piani sequenza oramai cifra stilistica del regista, pure qui più nel vezzo che in altro, i momenti di potenziale valore si perdono come gocce nella pioggia, vittime anche di una weirdness in CGI che tradisce un eccessivo rimarcare istanti che avrebbero necessità di vivere con più respiro.
Una pedanteria di forma che soffoca la spontaneità nel momento in cui Bardo è chiamato a schiudersi davanti lo spettatore, dove nega il formare con lui un patto emotivo e il presentargli i momenti chiave di questa esistenza snocciolata un’epifania dopo l’altra. Quasi uno spreco il fatto che l’opera possa contare su un comparto visivo così forte e incisivo, l’eccellente lavoro del direttore della fotografia Darius Khondji, probabilmente l’unico aspetto a questo punto meritevole di essere valorizzato in Bardo lì dove il racconto personale dell’io non giunge davvero mai.
Un film che pare soffrire anche il confronto con l’arrivare in ritardo rispetto all’operazione nostalgia da grande autore messa in atto da Netflix da qualche tempo a questa parte. L’anno scorso ha visto sbarcare proprio al Lido un altro personale Amarcord, quello di Sorrentino con È stata la mano di dio, ma prima ancora ha condotto all’Oscar il più sincero Roma di Alfonso Cuarón, che dei registi messicani dell’oggi è forse il più talentuoso e con una salda idea di cinema. Un’operazione che, infine, non si fa altro che respingente, inevitabilmente autoriferita ma che trova il suo maggiore difetto nel volersi spacciare per flusso di coscienza a cuore aperto quando in realtà è terribilmente artificiale, peccatuccio viziato e anche un po’ borioso di un autore che più che riconciliarsi marca ancora la distanza.