Non è semplice parlare di un documentario senza correre il rischio di essere in certa misura didascalici. Perché un documentario, per sua natura, rifugge la laconicità dell’arte partecipando ad una natura informativa che è già piena di per sé. Esistono però opere in grado di farsi carico, con la loro ricchezza, di un regime tanto descrittivo quanto poetico. È questo il caso di All the Beauty and the Bloodshed, il documentario di Laura Poitras in Concorso alla 79° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, un’opera incentrata sulla vita e la carriera della fotografa americana Nan Golding.
Iniziamo col dire che la forza del film risiede innanzitutto nella sua struttura. All the Beauty and the Bloodshed si presenta come una creatura binaria, composta da costanti salti nel tempo, in una alternanza tra le due sezioni narrative che vi corrono in parallelo. Potremmo chiamare le due parti “presente” e “passato”. Il presente dell’opera, affidato ad immagini dinamiche e più propriamente tradizionali, ripercorre la battaglia di Nan Golding contro la potente famiglia Sackler, magnate dell’industria farmaceutica rea di aver causato un’epidemia di dipendenza da ossicodone negli Stati Uniti.
Una storia che vede schierata in prima linea la donna, che dopo aver sviluppato la dipendenza fonda un gruppo di recupero e di manifestanti per portare all’attenzione mediatica il problema. E così la telecamera segue i racconti della Golding e del gruppo durante le manifestazioni, curiosamente messe in atto all’interno dei più prestigiosi musei internazionali. La famiglia Sackler, infatti, rappresenta allo stesso tempo uno dei principali mecenati del mondo dell’arte, nonché finanziatrice dei musei che espongono le opere della stessa Golding. In tal modo si crea un cortocircuito che si avviluppa in modo ancora più intimo attorno alla figura della donna.
Allo stesso tempo la narrazione nel presente si presta ad interventi di immersione nel passato della fotografa, nella sua vita personale e nella sua carriera artistica. Dalla sua infanzia segnata dal suicidio della sorella alla sua fuga da casa, dalla sua gioventù libertina e le sue esperienze nella vita underground e queer degli anni Settanta e Ottanta, la storia di Nan Golding si mostra come una finestra su uno spaccato di cultura popolare degli Stati Uniti. La particolarità di questa sezione, che si discosta esteticamente dalla prima, è la modalità scopica a cui è affidata la narrazione. Non ci troviamo più in un contesto dinamico, bensì il racconto è affidato a delle istantanee, fotografie scattate dalla stessa Golding nel corso del tempo, che scorrono incessantemente davanti agli occhi dello spettatore.
In questo modo le immagini si trasformano in pezzi di un unico grande mosaico, frammenti di una vita e di una persona che si racconta attraverso di esse. La voce di Nan Golding accompagna, fuori campo, lo scorrere di queste foto, commentandole come un critico d’arte di fronte a dei dipinti. Perché di fatto è questo per lei il valore della fotografia, una forma d’arte che è mezzo di espressione di se stessa e del mondo, un linguaggio viscerale e potente che risuona amplificato dalla trascrizione filmica.
Con All the Beauty and the Bloodshed Laura Poitras, premio Oscar nel 2014 per Citizenfour, firma un’opera intima e straordinariamente vivida. Il ritratto di un’artista e una donna che, attraverso la propria storia personale, si trasforma in figura universale ed emblema della potenza e della valenza dell’arte come strumento di espressione personale e di lotta collettiva.