A distanza di un anno Michel Franco torna in Concorso alla 78esima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, dove nel 2020 ha trionfato con Nuevo Orden che si è aggiudicato il Gran premio della giuria. Questa volta presenta Sundown, film all’apparenza tenue e distante dal cinema fatto di shock improvvisi, cutanei, che attraversano con durezza la filmografia del regista messicano.
All’apparenza, perché a guardare meglio gli 83 minuti di questa nuova pellicola (gliene sono sempre bastati pochi) si notano le tracce tipiche degli stress che Franco cuce addosso ai propri personaggi, cavie al centro di esperimenti che esplorano l’esplosione di dinamiche umane portate agli estremi, tese come pelle da conciare sopra un cavalletto.
Non sfuggono a quest’occhio clinico, e cinico, nemmeno i fratelli Alice (Charlotte Gainsbourg) e Neil Bennett (Tim Roth), in vacanza ad Acapulco assieme ai due figli di Alice. La tensione è dispiegata fin dal primo istante, ingrediente essenziale di un brodo amaro fatto ingerire lentamente fino a quando Alice e i figli sono costretti a lasciare la città per fare ritorno in Inghilterra a seguito di un evento imprevisto. Franco rimane addosso a Neil e al suo peregrinare come un’anima in pena di cui non sappiamo niente e niente ci viene detto, nel corpo teso ma rassegnato di un ottimo Roth, nonostante l’impegno richiesto dal regista sia più o meno dalle parti di Chronic, precedente collaborazione dei due.
Sundown si prende molti di quegli 83 minuti per iniziare a scrollare i nervi che si stanno facendo sì tesi ma che non sono nemmeno pizzicati a dovere in preparazione di un qualcosa che accadrà in maniera forse troppo tardiva. Certo è che dopo il tormentato e più netto (anche ambiguo) Nuevo Orden è chiaro come Franco stia guardando soprattutto alla scia di sangue che penetra la terra del suo Messico, alle sue derive. Ne questiona (solo nelle intenzioni) la violenza divenuta quasi congenita, ne osserva una militarizzazione che arriva a estendersi con anfibi e mitra anche sulle bellissime e poverissime spiagge dello stato centramericano. Non lascia spazio nemmeno per un istante alla speranza, alla luce in fondo al tunnel, ma anzi è ancora una volta quasi odioso nel descrivere la parabola di quest’uomo che desidera solamente essere lasciato solo e tra gli ultimi, a suo agio in quello strato dove si consuma la miseria e la ferocia.
Però manca qualcosa in un intreccio che è troppo esile e vago nel dare dimensione al trauma, evocato ma mai focalizzato con reale efficacia, insomma lasciato nel bordo di un film che si fa più cornice che esplosione di grumi di tempera ai quali siamo stati abituati fino ad ora (nel bene e nel male). L’atto della sottrazione è abusato e infine restano impronte vacue, scheletri che più che manifestare la dannazione si limitano a essere burattini gettati nel tritacarne. Sundown non convince, troppo epidermico e pigro, freddo perché prende le distanze da tutto, compreso se stesso.