C’è un fenomeno che da circa una decina d’anni (dal 2012, come verrà precisato nei titoli di coda) coinvolge le carceri israeliane: il traffico di sperma di prigionieri palestinesi. Ad oggi, più di cento nascite sono state legittimamente confermate. È questa la base da cui parte l’egiziano Mohamed Diab, regista e sceneggiatore del film Amira in concorso nella sezione Orizzonti.
Amira (una bravissima Tara Abboud) è una giovane palestinese concepita tramite fecondazione in vitro, appassionata di fotografia, nello specifico fotomontaggi. Una tecnica che le consente di colmare le distanze con suo padre Nuwar, “prigioniero di guerra” (come lei tiene a precisare), anche se non sapremo mai per quale motivo, in Israele. Proprio durante una delle sue visite, magistralmente inquadrate da Diab, che si districa attraverso le mille barriere (volutamente sovrapposte nelle inquadrature) e i ripetuti controlli che i visitatori devono superare per incontrare i loro parenti, il padre confessa a lei e sua madre, Warda, il desiderio di ripetere il processo di fecondazione per ottenere un secondogenito.
Da qui, la scoperta sconcertante: Nuwar non può avere figli, è sterile. Non ha mai potuto averli. In pochi istanti, crolla il mondo di certezze della nostra protagonista, una vita dedicata ad abbattere quelle barriere fisiche che la separavano da suo padre, il suo eroe, e a credere nella causa del suo popolo. E attraverso il particolare ed intenso dramma vissuto da Amira e la sua famiglia, il regista ha la possibilità di passare all’universale, coinvolgendo in toto gli usi e costumi della società palestinese contemporanea.
Viene affrontata, in primo luogo, la figura della donna, partendo dalla protagonista e, continuando, fino a coinvolgere altre generazioni come quella di sua madre (l’unica, forse, a conoscere tutta la verità) e di sua nonna. Si parla di ciò che è concesso e non è concesso fare, le decisioni che di solito spettano al genere femminile. C’è spazio, attraverso l’interessante figura dell’insegnante scolastico, purtroppo poco coinvolta, per sfiorare anche il tema dell’omosessualità. E poi, a riecheggiare continuamente fuori campo, a muovere i fili della vicenda, il sopra citato conflitto israelo-palestinese.
Cosa definisce Amira? Non può solo essere il solo codice genetico, come le dirà il professore. Lei può scrivere la sua storia, d’altronde ha sempre “creato” dei ricordi attraverso photoshop. Ma neanche questo, per Diab, potrebbe bastare, come ci verrà mostrato nell’eccezionale finale (la cui vetta verrà raggiunta nella scena oltre il confine), la vera beffa e clamoroso rovesciamento di medaglia di una assurda vicenda non così lontana dalla realtà.
Ogni inquadratura di Amira viene percorsa da una tensione costante. C’è tensione nei silenzi, nei riflessi dei vetri che separano Amira e Nuwar durante i turni di visite (di particolare effetto un long take dedicato al secondo a metà film). Ma non è finita di certo qui. Il film non si chiude in una visione ben delineata del contesto palestinese e del conflitto con gli israeliani, o ad una presa di posizione precisa. La situazione è delle più complesse. Le sfumature a tratti impossibili da cogliere (come sembrano simboleggiare le riprese in esterni, spesso effettuate in ore notturne).