Ancora disorientata dai ritmi veneziani – dove guardare due film prima di pranzo è d’obbligo – cerco di fare ordine e evitare ri-montaggi personali. Ieri è arrivato a Venezia Wim Wenders e tutti erano pronti e scalpitanti ad accoglierlo. Il film però non sembra aver convinto – forse anche perché una buona parte (tra cui io) è andata inconsapevolmente alla proiezione sottotitolata in inglese, poco saggio in un film in francese tutto costruito su di un dialogo. Wenders e Peter Handke, autore del testo teatrale adattato in Les Beaux Jours d’Aranjuez, si allontanano dal paesaggio metropolitano, fulcro del loro lavoro iniziato con Il cielo sopra Berlino, per farci accomodare lentamente in mezzo alla verde natura della campagna parigina. In lontananza possiamo ancora intravedere i palazzi della città, pulsante anche nei due protagonisti messi in scena in questo dialogo. Una villa di campagna con un giardino fiorito e una pergola avvolta dal glicine ospitano due sedie, un tavolino e una mela al centro. Un locus amoenus dove uno scrittore inizia la sua pièce: un dialogo tra un uomo e una donna. Il rumore di una macchina da scrivere e di un jukebox ci immergono in un’atmosfera teatrale. Lei (Sophie Semin) è molto bella e risponde, quasi aspettando la battuta, alle domande di lui (Reda Kateb), scrittore completo di foulard e cappello di paglia. La scena è ovattata dalla luce filtrata dagli alberi che la trasporta elegantemente dalle parole (spesso molto pretenziose) alle immagini 3D, e in questo Wenders si conferma un maestro consapevole nel lavorare con il mezzo a propria disposizione.