La salvaguardia dell’ambiente e la difesa delle antiche tradizioni sono due lotte che spesso tendono a coincidere. Ciò accade in Le Mohican, il film di Frédéric Farrucci presentato ad Orizzonti Extra. La volontà del regista di narrare il tragico tramonto dei pastori corsi si era già palesato nel suo omonimo documentario del 2019. Infatti, ormai da anni, la cementificazione delle coste dell’isola è diventata una piaga dilagante e praticamente incontenibile per i pastori impoveriti. Essi, tragicamente dimenticati dallo Stato, si trovano inermi di fronte alle avances dei ricchi proprietari terrieri, i cui interessi sovente si intrecciano con quelli della mafia locale.
Rifiutare le loro offerte faraoniche, in nome del mestiere tramandato, significa inevitabilmente incorrere in quotidiane minacce e, se i rifiuti si fanno recidivi, alla morte. Nonostante i rischi, è questa la scelta di Joseph (Alexis Manenti) che, rifiutati 300.000 euro da un ricco possidente, è costretto a combattere in solitaria per difendere il suo ovile. Lo scontro con un mafioso, conclusosi con il decesso di quest’ultimo, dà il via alla sua sfiancante fuga. La sua fama, diffusasi grazie all’impegno social della nipote Vannina (Mara Taquin), lo rende ben presto un eroe popolare, simbolo dell’incessante lotta di un uomo che, per difendere l’eterna bellezza della propria terra, non si arrende ai soprusi dei potenti, meritandosi così l’appellativo di “ultimo dei mohicani”.
La buona realizzazione di un film così impegnato, ma soprattutto impegnativo, è merito del magistrale lavoro del regista, non solo nella scelta del casting, con una particolare attenzione per i ruoli minori, in particolare per la resa che imprime al contesto paesaggistico. È in questo elemento che risiede la grandezza del film che, così, si impregna di uno spirito neowestern che il regista non intende celare. Infatti, la diretta ispirazione a L’uomo che uccise Liberty Valance di John Ford viene, dallo stesso, orgogliosamente rivendicata.
I volti severi, immobili e sicuri di Alexis Manenti e Théo Frimigacci, l’antagonista mafioso, ricordano quel passato lontano, quando l’uomo e la natura coesistevano con un profondo rispetto reciproco. Un sentimento che, col passare degli anni, sembra sempre più venire meno. Ma l’impegno che Joseph imprime per risvegliarlo deve esserci di esempio. La sua storia è quella di un’eccezione, di un uomo che inizialmente agisce per istinto di sopravvivenza ma, infine, prende coscienza dell’importanza del suo combattere, tramuta questo sentimento in un sincero amore per la terra, un attaccamento così forte da renderlo la personificazione della Terra stessa. Ed è per questo motivo che la terra lo ripaga, offrendogli la possibilità di fuggire, ma soprattutto di nascondersi tra i suoi lidi insondati e le sue ascose foreste.
La sua avventura diventa, così, una vera e propria impresa miracolosa, destinata ad eternare per sempre la sua leggenda. E forse è proprio questo il significato del film: sono la leggenda e l’affetto popolare gli unici sentimenti che riescono a prevaricare quelli economici.
È proprio da questa consapevolezza che Vannina, infine, riprende in mano le redini dell’ovile. «Sono qui perché non è tutto perduto ma è una lotta impari» è la frase che pronuncia nel finale, parole pregne di una debole speranza, che si regge sulle spalle possenti di chi sceglie di difendere le antiche e innocenti tradizioni dagli sporchi interessi del mondo industrializzato.