Presentato alla sezione Orizzonti presso la settantanovesima Mostra d’arte cinematografica di Venezia, The Happiest Man in the World (2022) di Teona Strugar Mitevska è una seduta psicanalitica entro le radici più profonde del trauma individuale e collettivo. Servendosi di un montaggio sempre incalzante e spesso ai limiti della sopportazione, la regista macedone non alza mai il piede dall’acceleratore e mette in scena l’infernale recupero di quelle coscienze disintegrate dal dramma social politico della guerra bosniaca anni novanta. Il brutale caos della vita, realisticamente rappresentato dal film, è un’eruzione vulcanica ad ampissimo raggio sprigionata da una sceneggiatura che si fa mano a mano tanto implacabile quanto un tribunale di giustizia nell’ora più buia. The Happiest Man in the World recupera in un certo senso il peso della riflessione etica e morale di una certa scena di M – Il mostro di Düsseldorf (1931, Fritz Lang) e vi aggiunge oltretutto l’ardua e coraggiosa accettazione dei propri passati di vittima e carnefice.
I quarantenni Asja (Irma Alimanovic) e Zoran (Izudin Bajrovic) dal passato turbolento partecipano ad un meeting di appuntamenti al buio organizzato da un’associazione che augura ad una comunità di concorrenti di trovare l’amore delle loro tristi vite. L’ideale romantico andrà tuttavia sgretolandosi a causa dell’emergere di una verità tragica: i due compagni protagonisti si sono “conosciuti” quand’erano molto giovani durante la guerra (1993 – 1996) tra le forze del governo bosniaco e l’Armata Popolare Jugoslava. Il salone dove è ambientato quasi per intero il film si trasforma ben presto in un rosso girone dantesco, abitato da repellenti anime tormentate che sperano di risolvere le proprie frustrazioni sessuali con la semplice pressione di un pulsante. Ogni coppia seduta al tavolo ha un certo tempo per rispondere ad un quiz di domande personali; le risposte informeranno il partner sul vuoto cosmico che attanaglia la propria vita.
In questo contesto, Asja e Zoran costituiscono la loro fragile alleanza e tentano di sopravvivere/conoscersi tra i mari in tempesta di uno pseudo-ospedale psichiatrico. Provocare nell’altro una reazione emozionale schietta e cinica sembra l’unica intenzione di quest’insopportabile gioco masochista e villano. Ma cosa succede quando “sbatti il mostro in prima pagina”?
Il suo orrore è tangibile fin dalle primissime scene del film di Teona Strugar Mitevska e non potrà far altro che aizzare l’odio represso di una comunità ferita. La sua temibile oscurità attraversa ad inizio film la nuca, le gambe e le azioni dei due protagonisti; Zoran è su un tetto di un palazzo ed è pronto al suicidio, mentre Asja è l’anonima persona tra la folla ed è intenta anche a mascherare con rossetto il finto sorriso sul suo volto. La regia di questo asfissiante prologo indugia sui dettagli fisici dei protagonisti senza mai chiarirci effettivamente dove siano. Procurando un allontanamento dalle rigide norme classiche di presentazione del mondo e così un avvicinamento alle destabilizzanti spinte avanguardistiche di confusione, l’irriconoscibile Sarajevo di The Happiest Man in the World diventa qui la tormentata capitale di un trauma che ancor prima del governo colpisce l’uomo qualunque. Non vediamo infatti i volti dei protagonisti fin quando non entriamo con loro nel palazzo dove avviene il love meeting.
Enfatizzare la nuca e la schiena dei protagonisti nel prologo significa indirizzare l’attenzione dello spettatore verso le conseguenze fisiche di un trauma che ha inevitabilmente cambiato il corpo. La ferita da proiettile, ora cicatrizzata sulla schiena, è il vero volto mostruoso di Asja e Zoran. Vittima e carnefice si sovrappongono e condividono paradossalmente la medesima faccia. Entrambi sono gli oppressi! Entrambi sono quella Sarajevo anonima che attende di mostrarsi a viso aperto senza eccezioni. Le facce effettive di Asja e Zoran sono invece quelle maschere umanamente evitanti che hanno troppa paura di affrontare il trauma passato; non è dunque un caso che queste maschere siano rivelate nel momento in cui entriamo assieme ai protagonisti nel love meeting.
Come ogni scena del film di Teona Strugar Mitevska, anche quella rivelatrice di queste cicatrici (fisiche ed interiori) mangia l’anima dello spettatore ma, a differenza del resto della sceneggiatura, essa è il momento fatidico che in particolare ci illumina sulle radici dell’odio e che spiana inoltre la strada del perdono. In conclusione, The Happiest Man in the World è a tutti gli effetti un’opera necessaria che sta invitando noi spettatori ad addentrarci entro i puzzle più bui delle nostre coscienze ferite. Un film che fa scuola… e non soltanto cinematograficamente.