Nella vetrina veneziana, come ogni anno, trova spazio a una selezione d’eccellenza delle attesissime uscite internazionali (ma sopratutto americane) tra le quali quest’anno spiccano The Shape of water (Guillermo Del Toro ) e First Reformed (Paul Schrader). Questi grandi nomi permettono al festival e anche alla stampa di risuonare tra il grande pubblico, scalpitane di poterli vedere al cinema – ma chi può fa un salto direttamente a Lido, tra red carpet e proiezioni stampa, a respirare l’atmosfera che solo qui si crea.
Nel 1962 gli Stati Uniti d’America si avvicinano quasi inconsapevolmente ad una svolta: le lotte per il riconoscimento della parità fra i generi e le razze sono ancora agli albori, la televisione sta sostituendo il cinema nelle case degli americani, le illustrazioni pubblicitarie stanno per essere rimpiazzate dalla fotografia. In un Paese dove i kolossal biblici non riempono più le sale e la guerra fredda alimenta la paranoia collettiva, il ‘diverso’ è il mostro, la minaccia da cui difendersi. Guillermo Del Toro presenta in concorso a Venezia 74 il suo ultimo film The Shape of Water. Il regista messicano sviluppa sotto forma di favola fantasy-gotica una tesi sull’America dei primi anni 60′. La base è semplice (a rischio di sembrare scontata): una rielaborazione della bella e la bestia con qualche cenno a Cenerentola e molte altre fiabe. Elisa (Sally Hawkins), una ragazza muta, lavora come donna delle pulizie in una base militare americana. Poco considerata per la sua diversità, trova nella corpulenta e materna afroamericana Zelda (Octavia Spencer) la sua più preziosa alleata sul posto di lavoro. Un giorno Elisa decide di soddisfare la sua curiosità e cercare di capire cosa sia la strana creatura nascosta in una vasca di acqua salmastra. Lì ritroverà l’amicizia e poi l’amore. Non è la trama del film a contare o i notevoli effetti speciali, la forza del film di Guillermo Del Toro sta in altro, nella sua profonda cultura filmica e nella ricchezza del suo sottotesto. Elisa che non può parlare si esprime con il corpo ed i sentimenti, si muove come le protagoniste di un musical ed intorno a lei si sviluppano costantemente citazioni colte dei grandi film musicali dell’America degli anni 50′ – userà la voce solo una volta in una splendida scena musical in bianco e nero che fa da sintesi della storia di un genere americano. Zelda rappresenta la lotta del popolo afroamericano e della donna in una società in cui l’emarginazione è ancora dominante. Così il resto dei personaggi, ognuno di loro è stato inserito per essere una sintesi di un risvolto determinante dell’America dell’epoca. Il mostro poi è chiaramente un’omaggio al cult movie del 1954 “Creature from the Black Lagoon” di Jack Arnold. Ne ricalca l’aspetto e le azioni intellettualizzandone le motivazioni e la crescita interiore.
Non c’è una singola soluzione narrativa che non serva a portare avanti la tesi del film: i colori, i cibi e la moda sono illuminati da una luce verde fosforescente che si riflette nei vestiti e contemporaneamente nella psicologia del personaggio di Elisa alla scoperta della propria sessualità. Anche le parentesi musicali servono qui ad accentuare la dimensione simbolica-onirica: dalla scelta di collocare la casa della protagonista sopra un cinema ormai vuoto, fino agli intermezzi narrativi sui primi franchising americani. Il sogno americano viene sostituito da una promessa di benessere acquistabile, consumistico. La guerra fredda è qui raccontata trasversalmente in una chiave inusuale che propone una rilettura postlacaniana delle ideologie e dei radicalismi politici (non a caso in epoca di Donald Trump). Le simbologie presenti nel film sono moltissime e costituiscono la forma del racconto, la “shape” del testo filmico, che va letta in chiave analitica più che nella sua forma di opera di intrattenimento per il mercato natalizio americano.
di Daniele Clementi