Reeducated di Sam Wolson offre un viaggio spaventoso e doloroso nel campo di rieducazione dello Xinjiang nella regione più vasta della Cina. Erbaqyt Otarbai, Orynbek Koksebek e Amanzhan Seituly testimoniano le torture e le umiliazioni ricevute senza motivo dalle autorità cinesi per anni attraverso i loro ricordi ed un’esperienza immersiva a 360° in animazione.
Nel 2017 le autorità cominciarono a deportare le minoranze mussulmane nei campi di rieducazione, si stima che nel 2018 almeno un milione di persone fossero confinate in campi simili a quello dello Xinjiang. I registi ci portano nel campo di rieducazione costringendoci a vivere in prima persona e come testimoni le esperienze raccontate dalle vittime, immersi in un raggelante bianco e nero dove i tratti di disegno distanziano emozionalmente dalle violenze fisiche, ma ci entrano nel cuore come relazione empatica con il racconto. La creazione di disegni crudi e fortemente evocativi ci consente di vivere l’esperienza con una piena integrazione nel dolore e nel trauma dei protagonisti spingendoci verso la percezione del significato di persecuzione e dittatura.
I testimoni degli eventi sono stati raggiunti dai registi in Kazakistan poco prima del lockdown mondiale ed hanno potuto così raccogliere le loro testimonianze per trasformarle in opera VR. Una particolare segnalazione la merita il lavoro di costruzione dell’audio spaziale a cura di Jon Barrison studiato nei minimi dettagli per ricostruire le esperienze condivise dai testimoni. Una produzione preziosa e socialmente importante che mostra come la realtà virtuale possa essere usata per raccontare storie in forma innovativa e sperimentale con regole linguistiche che trascendono quelle canoniche dell’audiovisivo.
Un Container secondo Meghna Singh e Simon Wood, è qualcosa con cui tutti noi consumatori abbiamo a che fare ogni giorno, dal prodotto comprato online a quello al supermercato, tutto il nostro consumo passa dai container che girano il mondo e consegnano il frutto dei nostri desideri. Ma i container sono anche la memoria del dolore e dello sfruttamento di bambini di paesi poveri che cuciono palloni, scarpe e magliette, schiavi di oggi ed eredi degli schiavi del passato, prostitute massaggiatrici e vittime varie dello sfruttamento dei paesi poveri da parte dei ricchi.
Il film ha inizio con una fusione fra passato e presente mostrando un container incatenato negli abissi che evoca i 221 schiavi incatenati ed annegati vicino alla spiaggia di Clifton (Città del Capo) nel 1794. La circolazione dei beni di consumo diventa così l’odissea del povero per mano del ricco, dello sfruttato per mano del suo sfruttatore, dello schiavo per mano del suo padrone. L’esperienza, girata a 180 gradi, mostra diversi container, in diverse fasi della storia dell’uomo, istanti simbolo di un racconto che sembra perpetuo sulla distruzione dell’umano a servizio del consumo, sulla trasformazione dell’individuo in schiavo o perfino in bene di consumo di chi può permetterselo. Siamo i testimoni della nostra indifferenza, della nostra avidità, osserviamo istanti di banale malvagità giustificati dalla necessità di produrre, consumare e capitalizzare senza freno o pietà.
In un mondo dove il consumatore è schiavo del suo consumo gli schiavi ridotti a bene di vendita non possono che rimanere invisibili agli occhi dei complici di queste schiavitù e forse solo lo strumento ludico della realtà virtuale può in effetti riportarci nella dimensione del reale fissando la banalità del male e la mostruosità delle conseguenze delle nostre azioni capricciose di consumatori.