«Non esagerare per rendere assurdo ciò che dico». Questa è una delle battute che forse rimane più impressa di Valley of the Gods (qui il trailer). Questa è la battuta che più in assoluto racchiude un qualsiasi tipo di discorso che si voglia intraprendere sull’ultima opera (in tutti i sensi) di Lech Majewski, ma procediamo con ordine.
John Ecas (Josh Hartnett), scrittore immerso nei meandri di una crisi creativa e coniugale, viene assunto per scrivere una biografia di Wes Tauros (John Malkovich – Deep Water, The New Pope, Ava), magnate che vuole acquistare una terra sacra ai Navajos al fine di estrarne l’uranio. La terra, insieme agli altri elementi, diventa un punto focale dell’intero discorso narrativo e visivo del racconto. A livello d’immagine, si fa riferimento infatti al fuoco, all’aria, alla terra e all’acqua, concentrandosi soprattutto sui primi tre elementi. Se il primo, rappresentato cromaticamente con i contrasti tra il rosso e il nero, è simbolicamente identificativo di Tauros, l’aria viene associata allo scrittore e la terra al popolo Navajos. Tale connessione non viene evidenziata solo a livello narrativo, ma soprattutto a livello metaforico visivo, aspetto su cui verte l’intero film.
Valley of the Gods, infatti, non può non essere considerato un film estremamente visionario, sull’onda proprio dei precedenti lavori dell’artista polacco. Non solo vi sono numerosi richiami a diverse opere d’arte, ma l’intero portato richiama a un’atmosfera profondamente anarrativa, che potenzia il tema traumatico trattato dallo stesso lungometraggio. Diviso in dieci capitoli, il film si sofferma su tre personaggi (John Ecas, Wes Tauros e i Navajos) che condividono fra loro la necessità di dover affrontare un’esperienza traumatica: la fine di una relazione, la morte della moglie e della figlia, la perdita della propria casa e del proprio patrimonio culturale. Il linguaggio antimimetico potenzia così il dolore dei tre individui, dandone sfumature diverse che cercano di andare oltre la rappresentazione stessa, ma forse è proprio qui che Lech Majewski s’incaglia.
Infatti, sebbene la scelta di usare un linguaggio evocativo e non mimetico sembri quasi ricalcare sia la cultura dei Navajos (al centro di Valley of the Gods) che un certo tipo di tendenza teorica di rappresentazione del trauma, lo spettatore si ritrova in una continua lotta tra uno stile estremamente magniloquente e uno sguardo che ha difficoltà ad aggrapparsi a un focus.
La macchina da presa sembra tentennare nel capire cosa voglia mostrare e cosa voglia lasciare fuori, giocando in un campo che si trova a metà e dando, dunque, la sensazione di muoversi alla cieca. Un esempio è rappresentato proprio dal modo in cui il tempo viene dilatato tramite continue alternanze tra piani e campi, che invece di restituire un’atmosfera straniante e onirica (come fanno invece i singoli frame, primi fra tutti quelli nelle celle), alla lunga annoiano e svuotano il significato stesso dell’azione sia registica che narrativa.
Insomma, Valley of the Gods è uno di quei film che gioca sulla potenza delle immagini, senza però riuscire a cucirle in maniera armoniosa. La sensazione finale è quella di aver assistito a una storia resa artificiosamente esagerata al fine di rendere assurdo tutto ciò che lo spettatore vede.