“Tu non hai niente che non va. Sei solo diversa.” Ma cosa comporta esserlo in una comunità dalle regole stringenti, nella quale non è concessa libertà alcuna specialmente alle donne? Decide di raccontarlo Deborah Feldman, che da una comunità del genere è riuscita a fuggire, scrivendo l’autobiografia che sarà d’ispirazione per Anna Winger e Alexa Karolinski, creatrici di Unorthodox (trailer), disponibile su Netflix. Una miniserie che in soli quattro episodi travolge lo spettatore trascinandolo di peso nella vita di Esther (Shira Haas), cresciuta nel quartiere di Williamsburg, sulla carta a Brooklyn, nei fatti fuori dal mondo. Perché nella parte sud di Williamsburg vive una comunità ebraica chassidica ultraortodossa, secondo il cui credo le donne vengono educate solamente a ricoprire il ruolo di mogli e di madri, con nessun altro scopo se non quello di procreare il più possibile.
La serie prende il via nel momento in cui Esther sta già scappando da tutto questo, per iniziare una nuova vita. Esther, tipico nome ebraico e “easter”, “pasqua”, il momento nel quale gli Ebrei celebrano la liberazione dalla schiavitù in Egitto e l’esodo verso la terra promessa. Terra promessa che per la protagonista di Unorthodox è Berlino, una città la quale, nonostante ciò che le è sempre stato insegnato, sarà in grado di accoglierla, a differenza di quanto era riuscito a fare il matrimonio infelice da cui fugge. Matrimonio che per Esther aveva significato l’inizio di una nuova vita e non di certo la caduta in un baratro peggiore del precedente. Baratro all’interno del quale anche lo spettatore entra, attraverso i numerosi e dolorosi flashback che mostrano in tutta la sua concretezza una storia sulla quale è necessario indugiare.
Per poter godere appieno della libertà che Esther riuscirà a trovare a Berlino, bisogna infatti agognarla, cosa che non cessa di succedere per un attimo, avendo davanti agli occhi le immagini di un passato che è presente per tante persone, per tante donne. Guardando Unorthodox sovviene alla mente un’altra storia brutale, quella raccontata da Margaret Atwood in The Handmaid’s Tale, con l’unica differenza che in quel caso ci si trova di fronte ad una distopia, invece tutto ciò che accade in Unorthodox, accade hic et nunc, in questo mondo, in questo tempo. Impossibile dimenticarlo durante la visione, è anzi ciò che rende la serie così coinvolgente e a tratti disturbante, benché (anzi, forse proprio a causa del fatto che) in superficie mantenga una certa delicatezza, dovuta ad alcune ingenuità sia di Esther e financo del marito, Yanky Shapiro (Amit Rahav).
Unorthodox parla però soprattutto di lotta, lotta per la sopravvivenza che una volta a Berlino si trasforma in speranza. Perché da quel baratro che era la sua vita, Esther, a differenza di molti, riesce a fuggire, aggrappandosi proprio ad una delle caratteristiche che la rende così diversa dagli altri esponenti della sua comunità: l’amore per la musica. L’arte in determinate circostanze diventa sovversione, uno scorcio che si apre su un mondo fatto di libertà. Scorcio attraverso il quale poter a nostra volta guardare all’interno di quell’altro mondo, pieno di imposizioni, limitazioni, violenza psicologica e non. Oltreché sovversione, l’arte diventa allora persino denuncia. Ma ancora una volta, non solo. Perché oltre a voler essere una denuncia di quanto accade a Williamsburg, Unorthodox si dimostra anche un monito per chiunque, da qualunque parte, decida di guardarla.