Una viaggiatrice a Seoul, la recensione: linguaggi e sfocature

Una viaggiatrice a Seoul recensione

Per chi si sente di casa nel cinema di Hong Sang-soo, ricordate quando aguzzavamo la vista davanti a In water? – Ricordiamo che non è stata la prima volta. Ci aveva già abituati Woody Allen alla poca chiarezza dell’immagine, sfocando il divo Robin Williams in Harry a Pezzi, componendo uno scarto tra il mondo HD e la connessione lenta o assente, come diremmo oggi! -. Ecco, Isabelle Huppert, Iris, in Una viaggiatrice a Seoul (trailer), siamo noi che osserviamo con non pochi sforzi In water (o Robin Williams o il ragazzo che gioca alla roulette russa nel The Guitar Mongoloid di Östlund), accecati e appesantiti da quest’incompiutezza del linguaggio (cinematografico, quindi del corpo).

Ora, vaghiamo confusi in un ambiente non totalmente palpabile, strizzando ancora forte gli occhi, ma non per la sfocatura, che stavolta non si esibisce, ma per un elemento indecifrabile che si nasconde nell’eccessiva e prepotente illuminazione. Sì, l’eccessiva illuminazione, poiché ogni luce artificiale è insistentemente accesa, in Una viaggiatrice a Seoul. Visitando i tre appartamenti abitati dai nuovi allievi di Iris, la ragazza sentimentale, la coppia disarmoniosa e il giovane fidanzato (forse), non propriamente allievo, sedendoci ai loro tavoli o sui loro divani o sulle loro sedie e assimilando ripetutamente Makgeolli, il vino di riso coreano, cade lo sguardo sulle belle lampade decorative inutilmente accese, inefficaci laddove le grosse finestre sprigionano una più potente e rilevante luce naturale. Perché sono accese quelle lampade, allora?

una viaggiatrice a Seoul, recensione

«[…] rivelava come il sole, sempre tangenziale da destra o da sinistra rispetto alla posizione della torre, proiettasse l’enorme ombra scura del Bombardini Building sull’area circostante – un’ombra intensa e radente che si fondeva con la base della torre in una comune pozza nera […]», disturbiamo una minuscola porzione del capitolo terzo, sottocapitolo “g”, de La scopa del sistema di David Foster Wallace, in cui è contenuta la prolissa e carica descrizione dei luoghi che la protagonista Lenore percorre durante il viaggio verso l’ufficio. Colpisce la particolare attenzione che lo scrittore americano dedica all’ombra – alle sagome dell’oscurità – sviluppatesi attorno al Bombardini Building, “fagocitato dal nero, la curva dell’ombra più maestosa di tutto il Midwest”, come a suggerirci che tra le tenebre si nascondano una moltitudine di frammenti rilevanti per la risoluzione. L’opera di Wallace è poi un costante piluccare informazioni dai vari capitoli per riuscire a (ri)collegare tutti i frammenti e donare un nuovo macrosenso alla linea narrativa madre.

In Una viaggiatrice a Seoul di ombre, almeno visivamente, sembrano essercene poche. Oltre all’apparente ripetitiva semplicità formale, che abita ogni film di Hong Sang-soo, le ombre appaiono nell’indecifrabilità, o meglio nella non totale decifrabilità, del linguaggio. Iris tenta di insegnare il francese alle sue studentesse, non passando per una strada convenzionale e testata, ed evitando un linguaggio pensato e descrittivo fondato sulle regole grammaticali, ma spostando gli sforzi su un piano totalmente emozionale, per resistere alle «tentazioni della memoria». Se davanti a In water o a Wallace ci (ri)troviamo a strizzare gli occhi per la sfocatura, quindi per un pezzo mancate, qui è come se ogni dubbio visivo volesse essere rimosso, per permetterci di scoprire prospettive di senso inedite. Così, strizziamo ancora gli occhi, nonostante tutte le luci restino accese, perché capiamo che un’altro tipo di frammento continua a mancare, non nel linguaggio-corpo, ma nel linguaggio-parola, come se l’incomunicabilità persistesse nonostante gli sforzi di traduzione, come se la carica emozionale non bastasse. Una viaggiatrice, non un’abitante, si parla di passaggio, non di radicamento in un preciso contesto. Che Hong Sang-soo stia cercando una risposta, con questi suoi ultimi film, all’inconsistenza del corpo/parola? 

Le lampade sono ancora tutte accese, nessuno sembra volerle spegnere. E anche il sole sembra picchiare forte, tutto il giorno. Lo spiega il fidanzato di Iris: «Lei cerca l’illuminazione in un mondo secolarizzato».

In sala.

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