
Tra i critici cinematografici del passato senza dubbio Niccolo “Lino” Miccichè (1934-2004) occupa uno spazio di rilevanza. In realtà ridurlo a semplice critico sarebbe disonesto, parziale e fuorviante. Figura eclettica del cinema italiano, Miccichè, nato a Caltanissetta, è stato per prima cosa recensore e regista-sceneggiatore di corti d’inchiesta e film di montaggio, poi storico, docente, presidente del Centro Sperimentale di Cinematografia e della Mostra di Venezia, ma soprattutto “fondatore”. Sì, perché Lino ha fondato, ideato e quindi condotto la Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro e il Dams dell’università degli studi Roma Tre. Sì, perché amava il cinema e le sue ambizioni erano quelle di creare nuovi spazi e organismi nei quali la settima arte in Italia potesse vivere, migliorare, essere vista, ma anche studiata.
La Mostra di Pesaro, viva ancora oggi, ebbe il merito di ospitare il miglior cinema d’autore italiano e straniero, le più interessanti e sorprendenti cinematografie sperimentali di quegli anni e incredibili tavole rotonde alle quali parteciparono le figure più influenti del cinema moderno, da Pasolini a Godard, da Bertolucci a Ferreri. Ha ideato e ampliato numerosi progetti editoriali, tra cui le pubblicazioni Marsilio legate alla Mostra di Pesaro, che continuano tutt’ora. Forse è stato anche “imprenditore” della divulgazione cinematografica; si deve a lui infatti la Sala Trevi, storico cinema della Cineteca Nazionale, ultimato durante il suo incarico di presidenza al CSC.
Militante socialista di matrice lombardiana, non solo è stato direttore della rubrica di cinema del quotidiano socialista Avanti! per tantissimi anni, ma anche un critico e un recensore instancabile. Collaboratore del nostro giornale sin dal 1955,lo lasciò nel 1989, in seguito alla polemica degli spot pubblicitari durante la messa in onda tv dei film. Ha lasciato ovviamente un segno nelle varie università in cui ha insegnato, da Siena alla Sorbona, da Trieste fino a Roma. Una nuova generazione di docenti suoi allievi, come Stefania Parigi e Veronica Pravadelli, occupa tutt’oggi un posto di rilievo nella comunità scientifica di studi sul cinema.
Miccichè era una figura influente, potente ma soprattutto “autorevole”. Anche spigolosa e autoritaria per certi versi. Dal carattere rigoroso, Miccichè manteneva una certa distanza, anche se ovviamente non in tutti i casi, intrecciando comunque rapporti molto stretti con le persone di cui aveva maggiore stima intellettuale. Numerose le sue prefazioni a vari volumi di cinema, le sue ospitate all’estero quale missionario della conoscenza del cinema italiano. E poi ci sono stati i suoi libri, le sue numerose pubblicazioni interamente firmate da lui, molte delle quali oggi fuori commercio, ma sempre abbastanza ricercate dai nuovi studiosi sensibili all’indagine e alla memoria della vecchia scuola critica del mondo in celluloide.

Consultando pazientemente l’archivio storico dell’Avanti! possiamo ripescare alcune sue recensioni così piene di contenuti intellettuali e di forte spessore letterario. Numerose le sue recensioni positive, ma anche alcune sue legittime stroncature, come quella inferta a Todo modo di Elio Petri. «La mancanza di dialettica, lo smisurato sopra le righe, l’incontinenza espressionistica, la rozzezza allusiva, la continua irrisione rendono tale spettacolo motivamente inaccettabile agli spettatori democristiani e inutilmente consolatorio agli spettatori non democristiani e quindi anche politicamente inefficace. Come sempre infatti, nell’ambito delle pratiche formali, a un’estetica sbagliata corrisponde una politica sbagliata».
Su Fellini sosteneva ad esempio «i suoi film, soprattutto quelli successivi a Otto e mezzo, sono l’ininterrotta metafora di una contraddizione che cerca di negarsi e che, non riuscendovi, fonda su questo ulteriore contraddirsi la propria magica vitalità» e ancora, in fede, a questa cesura tra Otto e mezzo e i successivi, che i film del regista riminese siano « le ombre definite (talora bellissime, quasi sempre affascinanti, ma sempre troppo definite in quanto ombre) di un film ancora da farsi: il ricco e rigoglioso, ma anche lungo e sofferto, itinerario per giungere alla liberazione espressiva di un film che il cineasta, stando alle sue stesse parole, non è per ora in grado di comprendere e per il quale prova anche un po’ di spavento».
Tra i libri più importanti da lui scritti Pasolini nella città del cinema, Il cinema italiano degli anni 60 e Visconti e il neorealismo. Del regista lombardo era un autentico esegeta, e a tutt’oggi ne è considerato uno dei più autorevoli esperti. E da cultore di cinema eclettico qual era non si limitò solo a scrivere di autori italiani: pubblicò infatti una monografia su Robert Altman, la prima mai uscita in Italia dedicata al grande cineasta statunitense. Ma sarebbe troppo ostico affrontare in questa sede un’analisi del suo pensiero critico. Una critica della critica cinematografica forse superflua. Tutt’al più si può essere d’accordo oppure no sulle sue impressioni, sulle sue valutazioni. Al contrario sembra giusto affrontare, con occhio critico e da non rilegare a nota d’appendice, la sua iniziale attività da cineasta; con Cecilia Manzini e Lino Del Fra firmò il commovente e energico film di montaggio All’armi, siam fascisti! così come partecipo alla regia del documentario collettaneo L’Italia con Togliatti, uscito nel 1964 in occasione della morte del leader comunista (oggi interamente visibile su canale AAMOD) e non usiamo il termine “docufilm”, in quanto anacronistico in questo caso e lessicalmente impreciso, contestato da moltissimi registi specializzati nel genere documentaristico.
Molto meno conosciuti, ma da riscoprire per il gusto stilistico ed estetico i suoi corti; dal 1960 al 1966 ne firmò ben nove, e il suo esordio avvenne con I maggiorati, al quale seguirono Nuddu pensa a nuautri, Busa di dritta, La barca, Inchiesta a Carbonia, Dite no alla miseria, Il gioco, Matera Sassi ’65 e Inchiesta a Grassano, quasi tutti girati in 35mm (tranne Dite no alla miseria, realizzato in 16mm). Si tratta di cortometraggi documentaristici, osservazioni e esplorazioni antropologiche liriche e affascinanti in un’Italia alle prese con la prima fase dell’industrializzazione e del boom, e che ben presto, con l’espansione edilizia e autostradale, avrebbe visto perdere il landscape naturalistico e incontaminato che aveva conservato fino a quel momento.

Onde evitare di fare disperdere l’imponente figura di quest’eclettico uomo di cinema, suo figlio Francesco gli ha dedicato un approfondito documentario, uscito nel 2013 e intitolato Lino Miccichè, mio padre – Una visione del mondo. Un ritratto limpido e mai pedante che cerca di indagare a fondo sulla sua personalità così mista e complessa, piena di passione per il mondo e per la vita. Lino scompare nel 2004, a settant’anni neanche compiuti. Osiamo dire che ci ha lasciati troppo presto, in una fase per lui assolutamente dinamica e prolifica che avrebbe contribuito a creare nuovi “spazi” creativi e istituzionali nel mondo della diffusione e della conoscenza cinematografica e che non si sarebbe dovuta interrompere così all’improvviso.
Un ricordo interessante su Lino, assolutamente inedito, proposto per la prima volta in questa sede, è quello di Alfredo Baldi, noto storico del cinema italiano: «ho conosciuto Lino Micciché alla fine degli anni Settanta, a un convegno sulla censura cinematografica al quale Lino partecipava “per diritto”, mentre io, giovane storico, vi ero stato invitato grazie ai miei recenti studi su quel tema. Ho conosciuto meglio Lino a partire dal 1982, quando entrambi eravamo membri del consiglio di amministrazione del Centro Sperimentale, Lino in rappresentanza del sindacato critici cinematografici, io come rappresentante dei dipendenti del Centro. L’Ente usciva da otto interminabili anni di crisi e di commissariamento e si sentiva il bisogno di ripensare radicalmente la didattica per adeguarla alle nuove esigenze del “fare cinema”. Il presidente del Centro, Giovanni Grazzini, critico di prestigio, e Lino, anch’egli critico oltre che docente di cinema, erano coloro che più degli altri portavano, nell’ambito del consiglio, il loro contributo di sapere al rinnovamento della scuola. Ricordo bene le dotte e vivaci dialettiche che si instauravano molto spesso tra loro durante le sedute, tanto da lasciare poco spazio ad altri interventi. Ma verso Lino ho un particolare motivo di gratitudine, per avermi egli stesso proposto, quando era presidente del Centro nel 2001, di far pubblicare dal CSC – e quindi con una grande diffusione – un mio secondo libro sulla censura cinematografica che ampliasse le analisi storico-critiche e i contenuti del primo libro, uscito nel 1994 con un altro editore. Credo, senza false modestie, che questo volume, Schermi proibiti – La censura in Italia 1947-1988, abbia aperto le porte a studi sempre più numerosi, approfonditi e specifici sull’argomento».