Un omaggio a David Lynch

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Ci sono notizie che, per quanto dolorose, sembrano quasi impossibili da accettare. In particolare quando riguardano figure che, con la loro arte, ci hanno fatto credere che il tempo non potesse toccarle, che la loro essenza fosse destinata a restare immortale. È il caso di David Lynch, regista statunitense che, con le sue opere enigmatiche, ha rivoluzionato il volto del cinema e della cultura visiva. Questo 15 gennaio ci ha lasciato e, con la sua scomparsa, se ne va uno dei volti più originali e influenti del XX secolo.

“Mi mancherà più di quanto i limiti del mio linguaggio possano spiegare e il mio cuore possa sopportare. Il mio mondo è tanto più pieno perché l’ho conosciuto e tanto più vuoto ora che se n’è andato” afferma Kyle MacLachlan (l’inconfondibile Dale Cooper nella serie televisiva Twin Peaks) nel suo post-omaggio. Oltre alle star lynchiane, il mondo in generale ricorda il filmmaker, da Steven Spielberg a Francis Ford Coppola, sottolineando ulteriormente la sua importanza.

Non solo regista, ma anche sceneggiatore, attore, musicista, talvolta montatore e scenografo, David Lynch si è sempre distinto per una forte immaginazione. Nato a Missoula, una cittadina nel Montana, il 20 gennaio 1946, fin da giovane mostra una certa inclinazione artistica, con l’obiettivo iniziale di diventare pittore. Frequenta, infatti, diverse scuole d’arte, dove realizza numerose opere pittoriche – spesso cupe e oniriche – che anticipano molte delle tematiche che troveranno poi spazio nei suoi film. Successivamente, la sua attenzione si sposta sulla settima arte, soprattutto dopo aver realizzato il primo cortometraggio, Six Men Getting Sick (1967), un progetto scolastico che segna l’inizio del suo percorso verso il lungometraggio d’esordio, Eraserhead (1977).

Il successo è assicurato e Lynch, passo dopo passo, percorre la sua strada lungo gli anni ‘80 e ‘90, sino ad arrivare agli anni 2000, costruendo film dopo film uno stile visivo e narrativo unico e inimitabile, che influenzerà profondamente il cinema e la serialità televisiva, sia del suo tempo che dei nostri giorni. D’altronde, opere come Blue Velvet (1986), Twin Peaks (1990-1991), Mulholland Drive (2001), giusto per menzionarne alcune, risuonano tutt’ora nel nostro immaginario. Ma non siamo qui oggi per stilare una classifica delle sue opere, né per decretare quale sia il suo miglior film. Lungi da noi fare una simile riduzione, anche perché non sarebbe possibile racchiudere l’intero universo lynchiano – compreso non solo di lungometraggi, ma anche di opere pittoriche e di cortometraggi – in un singolo titolo. In effetti, sebbene potremmo citarle tutte, parlarne in modo esauriente risulterebbe quasi impossibile.

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Ciò che possiamo fare, invece, è esplorare la sua visione artistica, il modo in cui Lynch ha dato vita ai suoi lavori attingendo principalmente dalle sue idee, dai – a detta sua – “sogni a occhi aperti”, e creando mondi paralleli, vere e proprie visioni riportate sul grande (ma anche piccolo) schermo che spaziano tra il reale e l’immaginario. Un regista narrativo, ma non discorsivo, che ha avuto la brillantezza di raccontare storie non con l’intento di renderle comprensibili o facilmente decifrabili, ma di offrire esperienze che vadano semplicemente vissute attraverso la pura visione.

Il suo è un cinema che richiede e implica un’esperienza più profonda e sensoriale, dove le trame o i dialoghi finiscono inevitabilmente in secondo piano. Al loro posto, le sensazioni, le emozioni e le percezioni che un particolare film suscita nello spettatore. È importante approcciarsi alle sue opere coinvolgendo tutti i sensi e lasciandosi guidare in un’immersione totale che non tenga conto dei nessi logici di ciò che si osserva, ma che si abbandoni a un simbolismo capace di suscitare riflessioni. Le immagini, i suoni, le atmosfere, i personaggi sono tutti elementi interconnessi che insieme creano un tutt’unico.

Un esempio su tutti è il sopracitato Mulholland Drive, un film che ruota attorno alle vicende di Betty (Naomi Watts) e Rita (Laura Harring) a Los Angeles, mescolando realtà e illusione, sogno e veglia. La trama si sviluppa in un intreccio di misteri e indizi che, tuttavia, non offrono mai risposte definitive o concrete. In Mulholland Drive, le risposte non si trovano mai a livello superficiale, ma si celano nel sottotesto. Guardare il film per la prima volta e sperare di comprenderne ogni significato sarebbe un atto di presunzione, così come risulterebbe altrettanto futile cercare di afferrarne l’essenza limitandosi a una lettura della trama. La ricchezza dell’opera, così come quella di molte altre firmate da Lynch, risiede nella pluralità dei significati che può evocare. È proprio questa incertezza a rappresentare uno degli aspetti più affascinanti dei suoi lavori. In uno spazio di indeterminatezza, Lynch ci consente di assegnare alle sue opere molteplici interpretazioni, lasciando lo spettatore con la mente piena di domande e stimolando la sua curiosità.

Il crescendo evocativo viene rafforzato dall’uso del suono, che Lynch sfrutta magistralmente per amplificare l’atmosfera onirica del film. Oltre alle suggestive composizioni di Angelo Badalamenti, un momento in particolare merita di essere sottolineato: l’esibizione di Llorando, interpretata da Rebekah Del Rio. Quella che potrebbe sembrare una semplice performance si trasforma, in realtà, in un potente veicolo emotivo. Betty e Rita, le due protagoniste, sono sedute, osservano e si emozionano, e noi spettatori viviamo la medesima esperienza insieme a loro.

E allora è inevitabile, arrivati a questo punto, affermare che un film come Mulholland Drive poteva esistere solo grazie a un regista come David Lynch, poiché nessun altro sarebbe stato in grado di giocare con la mente dello spettatore in modo così sottile e provocatorio. Dopotutto, con la sua fervida immaginazione, è sempre riuscito a svincolarsi dalle logiche commerciali dominanti dell’epoca, optando piuttosto per una visione artistica personale. Il suo cinema è stato in grado di portare sullo schermo opere dotate di un’anima propria, capaci di comunicare autonomamente, senza dover rispondere necessariamente a logiche esterne.

Lynch ha sempre rifiutato di conformarsi ai canoni del cinema tradizionale, facendo in modo che il suo lavoro fosse al contempo una forma di espressione pura e un atto di sfida nei confronti delle aspettative del pubblico e del mercato. In questo senso, rappresenta una figura fondamentale per tutti gli artisti e cineasti che sono venuti dopo di lui: la sua influenza è infatti innegabile, e la sua impronta si può ritrovare in numerose produzioni cinematografiche e televisive contemporanee. Twin Peaks, per esempio, è una serie che ha rivoluzionato la cultura televisiva degli anni ‘90, segnando un cambiamento irreversibile nel modo di fare televisione. Twin Peaks ha introdotto tecniche narrative che sono diventate fondamentali nel panorama televisivo, come la struttura a puzzle, che richiede allo spettatore di impegnarsi attivamente nel decifrare indizi e collegare gli eventi da un episodio all’altro, per risolvere il mistero centrale della trama.

L’omaggio a David Lynch non può essere che doveroso: un artista camaleontico, visionario ed enigmatico, ma anche un uomo di una determinazione unica, che ha sempre rifiutato ogni tentativo di omologazione. Il suo talento è riuscito a trasformare ciò che potrebbe apparire ai nostri occhi come “strano” in qualcosa di “normale”, a patto che la normalità esista. La sua eredità ci impone di prenderne consapevolezza e di farcene carico perché David Lynch può aver lasciato il nostro mondo, ma noi continueremo a vivere nel suo.


BIBLIOGRAFIA

Dottorini D., David Lynch: Il cinema del sentire, Le Mani, 2004.

Rossini G., Le serie TV., Il Mulino, 2016.

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