L’alba, la spiaggia, le onde e le tavole da surf. Con questi elementi presentati in modo epico si apre il film cult di John Milius, Un mercoledì da leoni, che oggi compie 45 anni dalla première a New York.
«Mi ricordo soprattutto di questi tre amici: Matt, Jack e Leroy. Era il loro momento. Erano veramente sulla cresta dell’onda. Erano i re di un regno particolare. Questo era il loro ambiente e questa era la loro storia», e questa storia si dirama attraverso poco più di un decennio, scandita dalle date delle mareggiate che hanno colpito la California fra il 1962 e il 1974. Non bisogna pensare, però, che si tratti solamente di un film sul surf. Un mercoledì da leoni è un coming of age sulla perdita del goliardismo dell’età adolescenziale a favore della maturità del mondo adulto, con tutti i cambiamenti che questo prevede. Seguendo le avventure di Matt (Jean-Michael Vincent), Jack (William Katt) e Leroy (Gary Busey) assistiamo alla crescita di un’intera generazione americana che si è ritrovata improvvisamente a dover affrontare la guerra in Vietnam. Ma il fil rouge vero e proprio del film è l’amicizia, intesa come patto di fratellanza virile fra i protagonisti che, nonostante le diverse strade intraprese nel corso degli anni, rimarranno sempre presenti l’uno per l’altro (proprio come dice uno di loro: «Io ho fatto lo sport perché è bello stare con gli amici»).
Ma andiamo per ordine. Un mercoledì da leoni inizia nell’estate del 1962, in California, con i tre amici che passano le giornate surfando fra le onde dell’Oceano Pacifico. Hanno quella spensieratezza propria dei giovani, tra feste, scherzi, ragazze e gli incontri con il loro “mentore” Bear (Sam Melville), esperto surfista ormai ritiratosi per dedicarsi alla costruzione di tavole artigianali. Con la guerra del Vietnam, però, qualcosa cambia; Matt e Leroy riescono a sottrarsi alla chiamata alle armi attraverso stratagemmi, mentre Jack accetta il proprio destino. Passerà del tempo prima che si incontrino nuovamente per un’ultima cavalcata, quella della mareggiata del 1974, meglio conosciuta come “Il Grande Mercoledì” (da qui il titolo originale del film Big Wednesday).
All’epoca del suo rilascio, nel 1978, la pellicola non ebbe il successo di pubblico sperato. Fu un flop al botteghino, considerata forse un’opera troppo personale da parte del regista. Il tempo, però, aiutò il film di Milius ad ottenere lo status di cult, facendolo diventare uno dei più significativi del cinema americano degli anni ’70. La sceneggiatura, scritta dal regista stesso insieme al giornalista e amico di vecchia data Dennis Aaberg, si ispira ad una storia breve di quest’ultimo, pubblicata cinque anni prima su una rivista di surf e intitolata No Pants Mance, e ai ricordi di esperienze personali di quando i due erano ragazzi.
Ciò che a distanza di anni è stato riconosciuto come un pregio è stato proprio l’essere riusciti a fotografare uno spaccato di vita e storia americana, di una generazione e di un’America che ha dovuto affrontare profondi cambiamenti tra guerre, abitudini e controculture. «Le estati passavano rapidamente, e spesso non lasciavano traccia. Forse ricordo meglio gli autunni e le altre stagioni», il grande mercoledì di John Milius è quindi una profonda riflessione sul passare del tempo, dall’adolescenza in cui tutto va più veloce, fino all’età adulta, dove l’inevitabile scorrere è accolto con la malinconia della consapevolezza. Questi ragazzi rappresentano la borghesia americana bianca dell’epoca, alla quale sembra tutto concesso, senza doveri o responsabilità alcuni (emblematica, ad esempio, la festa a casa di Jack che degenera in una rissa); il grande giorno della «mareggiata così forte e gigantesca che spazzerà via tutto» è quindi la fine dell’American Dream per i protagonisti e di chi come loro era nato e cresciuto nella florida epoca precedente.
Il personaggio Bear rappresenta perfettamente questa evoluzione della società: prima surfista negli anni Cinquanta, poi artigiano locale, fino a commerciante vero e proprio con un negozio e una marca di tavole personale. Alla fine, però, il sogno sfuma e la sua incapacità di proiettarsi verso il futuro e adattarsi ai cambiamenti lo fa tornare al punto di partenza, sul pontile della spiaggia, senza più nessuno, né tantomeno un’attività. Il surf come metafora della vita, la sua esperienza lo rendeva un modello per i ragazzi e dava uno scopo alla sua esistenza: «In tutti questi anni poche cose hanno contato per me, ma la più importante di tutte è sapere che mi eravate affezionati, che mi rispettavate e riconoscevate che vi avevo dato qualche cosa». E proprio quell’ultima uscita in mare dei tre ragazzi lo riporterà indietro nel tempo, orgoglioso di ciò che erano diventati, anche grazie a lui.
Con Un mercoledì da leoni il regista fa un omaggio anche alla propria gioventù (gli stessi titoli di testa presentano come ultimo fotogramma una sua immagine da giovanissimo surfista). Milius, infatti, iniziò a praticare lo sport del surf all’età di sette anni e continuò per oltre quaranta. Le conoscenze acquisite attraverso la comunità di surfisti di cui faceva parte, sono quindi tornate estremamente utili e di ispirazione per questa pellicola dalle atmosfere epiche e nostalgiche. Gli stessi attori protagonisti erano già esperti cavalcatori di onde al momento in cui si iniziò a girare il film. In particolare, il personaggio di Matt Johnson, interpretato da Jan-Michael Vincent, è ispirato al famoso surfista Lance Carson, anch’esso affetto da problemi di alcolismo fin da giovane e poi diventato un costruttore di tavole con un proprio brand (come la marca fittizia “Bear” creata appositamente per il film e poi tramutata in un marchio reale di attrezzature da surf).
Il messaggio universale di questo film, che lo rende a tutti gli effetti un cult, consiste proprio nella descrizione dei sentimenti di una generazione che sperimentava e cercava un’esistenza al di fuori delle regole imposte dalla società conservatrice americana dell’epoca. L’acqua, grande protagonista della pellicola, si fa quindi metafora degli ostacoli della vita, dei momenti alti e bassi, proprio come l’incessante movimento delle onde che possono travolgere o essere cavalcate.
Un mercoledì da leoni si chiude così proprio nello stesso luogo dove era iniziato: la spiaggia dei surfisti separata dal resto della città da una scalinata decadente, una sorta di confine tra sogno e realtà dei protagonisti. La promettente nuova generazione, alla quale i tre passano il testimone proprio alla fine della mareggiata, è pronta a mantenere vivo il mito attraverso storie e ricordi.
Riuscendo ad unire il genere dei beach party films (commedie con protagonisti adolescenti, dediti ad attività proprie dei giovani come ballare, bere, fare surf, ecc.) e dei film dedicati allo sport del surf, John Milius riesce a realizzare una delle pellicole più amate proprio dalla sottocultura che voleva rappresentare. Un classico di cui si parla ancora troppo poco e, soprattutto, un must per gli appassionati dello sport.