Un maledetto imbroglio di Pietro Germi: 65 anni dopo

un maledetto imbroglio, la recensione

Nel 1946 vengono pubblicate le prime cinque puntate del racconto Quer pasticciaccio brutto de via Merulana scritto da Carlo Emilio Gadda, sulla rivista Letteratura. La sesta non arriverà mai. Il successo che riscosse sin da subito portò l’autore a riprendere in mano il lavoro già fatto – ispirato ad un fatto di cronaca romana – sviluppando un romanzo, inquadrandolo nel sotto-genere del giallo. Uscito nel 1957, anch’esso riceverà approvazioni di critica e pubblico, tanto che da esso verrà realizzato Un maledetto imbroglio, con la regia di Pietro Germi, uscito nel 1959.

Secondo Alfredo Giannetti – che insieme a Ennio De Concini scrisse la sceneggiatura del film – l’idea di un adattamento cinematografico del romanzo venne al produttore Giuseppe Amato – detto Peppino. Il giallo poliziesco non aveva un suo spazio nel cinema italiano e la realizzazione di un film tale avrebbe sicuramente costituito una scommessa. Ed è proprio da una scommessa dalla quale la leggenda vuole che nasca il progetto: Amato avrebbe sfidato i due sceneggiatori nello sciogliere la trama intricata del romanzo per poi re-intrecciarla adattandola ai canoni filmici. I due sceneggiatori, che tanto in erba non erano più, considerando i lavori precedenti, tra i quali ricordiamo Il ferroviere ( Germi, 1956), L’uomo di paglia (Germi, 1958) per Giannetti e Totò e i re di Roma (Monicelli e Steno, 1951), I tre corsari (Soldati, 1952), Il grido (Antonioni, 1957) per De Concini, presentarono il lavoro ad Amato, il quale per tutta risposta sparì. Solo dopo ammetterà che lo fece per non pagare i soldi della scommessa, circa quattro milioni di lire. Come biasimarlo.

Ma…Pietro Germi? Non era nuovo a storie di crimini e omicidi. Già ne Il testimone (1946) il protagonista era un assassino alle prese con il risveglio della sua coscienza; in Gioventù perduta ( 1948), cerca di individuare le ragioni di un crimine commesso da un ragazzo della borghesia. Ciò che incuriosì da subito il regista genovese era la possibilità di cimentarsi in un genere rimasto fuori dalla tradizione del cinema italiano e la sfida era rappresentata dal fatto di non lasciarsi influenzare dal cinema americano e inglese, che già presentavano un filone cinematografico delle detective story, vedendo la possibilità di realizzare un film dove la polizia non è dipinta come una macchietta o in maniera stereotipata, ma partendo dal presupposto che i poliziotti sono uomini e, in quanto tali, hanno i loro caratteri, i loro vizi e le loro virtù.

Il protagonista, il Commissario Ingravallo, interpretato da Germi stesso, ad esempio, alterna la collera scaturita dagli interrogatori con gli indiziati, al rispetto che mostra nei confronti delle famiglie delle vittime. Il regista attore è affiancato da una giovanissima Claudia Cardinale, nel ruolo di Assuntina, la misteriosa governante in casa del collezionista d’arte, la quale sarà determinante per la risoluzione del caso, nonostante le vengano meno sogni e aspirazioni future in un’Italia che si sta riprendendo dal dopoguerra. Oltre alla curiosità per la detective story, vi era anche un interesse da parte di Germi per la letteratura, trovando negli intrecci e nei problemi morali delle storie e dei personaggi di Mario Soldati, un corrispettivo nella prosa.

«Oggi se un regista italiano pensa a un poliziesco non pensa ai “gialli” assurdi di un qualsiasi specialista inglese o americano, ma pensa alla nostra polizia che esiste, arresta delinquenti, ha una sua divisa, una sua fisionomia». In Germi, che non era nuovo nell’affrontare generi diversi, c’è la volontà di mostrare le debolezze dell’essere umano per condannarle ed esorcizzarle, attraverso il tentativo di far porre delle domande allo spettatore sulla natura di determinati comportamenti. Questo è l’unico modo attraverso il quale gli esseri umani possono ritrovare la definizione della propria vita, la quale dovrebbe tendere al bene, per il miglioramento del vivere comune. Nei personaggi di Germi la dimensione privata è affrontata con comicità e satira che puntano a mettere in luce, condannandoli, gli aspetti meno virtuosi dell’essere umano. Secondo questa visione, il regista intende il cinema come strumento per il popolo di conoscere sé stesso e di auto-educarsi alla critica verso le pecche morali, ritrovando un senso vero e profondo di libertà. Ma torniamo al nostro imbroglio.

Giulio Cattaneo riporta nel libro dedicato a Gadda, Il gran lombardo, un episodio nel quale Germi invita Gadda ad una proiezione del suo film Il ferroviere, ma lo scrittore, affetto da nevrosi, pensò se fosse la giusta occasione orchestrata per venire ucciso e non vedersi corrisposti i diritti dell’adattamento. Si raccomandò a due suoi stretti collaboratori di andarlo a cercare qualora non si fosse fatto sentire una volta arrivato al luogo della proiezione. Tempo dopo, venuto a sapere di questo timore, Germi ne rimase amareggiato, tanto da delegare al produttore il compito di intrattenere i rapporti con Gadda durante la lavorazione del film. Ed era il produttore stesso che si recò a casa di Gadda – continua Cattaneo – per ritirare il plico di quindici fogli sui quali lo scrittore aveva appuntato le note alla sceneggiatura. Si tratta di minuzie, come alcuni sostantivi utilizzati per indicare le vittime o suggerimenti per i nomi di alcuni personaggi, che non avrebbero inficiato sull’intreccio concertato, nonostante alcune differenze di carattere strutturale fossero state inserite per l’adattamento cinematografico.

un maledetto imbroglio, recensione

La risoluzione del caso subì una modifica. Mentre nel romanzo Gadda opta per un finale aperto, Germi ci tiene a dare una conclusione compiuta, indicando l’assassino. «Io sono un uomo all’antica e per me la vita ha un senso […] e quindi i miei film finiscono con un significato preciso, il che dal punto di vista dell’intellettualismo esistenziale moderno può essere un difetto». Un’altra differenza, di più semplice spiegazione, consiste nell’epoca in cui le storie sono ambientate. Il romanzo vede le sue vicende svolgersi nel periodo fascista ma, come ricorda Giannetti, per comodità produttive, l’epoca è stata posticipata agli anni Cinquanta, evitando i costi e le esigenze che la realizzazione di un film quasi in costume avrebbe richiesto. Ciò che rimane è l’analogia nel gestire le descrizioni, visive e non, dei movimenti dei personaggi, l’attenzione per i loro corpi: per Germi è funzionale, sia al suo piano stile registico sia sul piano della caratterizzazione. Non mancano elementi anticipatori dello stile ironico di Germi e che troveranno maggiore sviluppo nei suoi successivi lavori, complice a toni e a rappresentazioni grottesche di personaggi e situazioni che lo consacreranno a uno dei maggiori esponenti della commedia italiana.

Il film fa propria la natura del racconto ma elimina la voce narrante, che si potrebbe ritrovare nelle chiacchiere dei condomini del palazzo nel quale avviene l’omicidio. Essi sembrano avere una funzione coro, anche se marginale, sempre pronti a far presenza su scale e pianerottoli e riconsegnano una dimensione collettiva e sociale in un film ambientato principalmente in interni, non snaturando gli obiettivi del romanzo ma adattandoli ai codici del cinema. Per queste ragioni, Un maledetto imbroglio vinse nel 1960 un Nastro d’Argento alla Miglior sceneggiatura e, nello stesso anno, un Globo d’Oro al Miglior film.

Bibliografia

M. Sesti, Tutto il cinema di Pietro Germi, Dalai Editore, 1997

A. Aprà , M.Armenzoni, P. Pistagnesi, (a cura di) Pietro Germi. Ritratto di un regista all’antica, Pratiche Editrice, 1989

C. Supplizi, Pietro Germi e la critica, Libreria Universitaria Ricerche, 2003

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