Tra l’essenzialità di Pawel Pawlikowski e la brutalità di Thomas Vinterberg, il film Un’altra vita è un ibrido capace di sorprendere e insegnare. È un dramma universale, senza tempo, ambientato nel Sud rurale della Polonia, eppure l’opera della regista Malgorzata Szumowska non sembra avere un luogo d’appartenenza.
Fin dalle prime inquadrature ci viene presentato un piccolo universo in cui vige la legge del “chi prima arriva, vince”, mentre gli altri, i diversi, rimangono indietro. È infatti, proprio davanti ad un negozio di sconti natalizi, che la gente del posto si spoglia e corre per attanagliarsi la prima cosa che capita; tra la folla riusciremo a intravedere il protagonista Jacek, ma il nostro occhio si focalizzerà su un’altra figura di riferimento, quella di una donna, stanca e vecchia, che, invece di inseguire la “minestra”, resta ferma ad attendere. La donna diventa simbolo di una quiete, immobile e in silenzio protesta contro la comunità che la circonda. È ferma; non batte ciglio di fronte ad una massa di corpi, magri e grassi, che nella mischia si confondono. Non è un caso che la regista ci abbia fatto “gustare” cotanta bruttezza da Girone dei Golosi, ma ciò è la testimonianza che tutte le persone “corrono” anche per le cose più inutili e infime, evidentemente “ovunque” (come ci viene annunciato all’inizio del film).
Jacek sarà sottoposto ad una dura prova: la brutalità delle persone non avrà confini e si manifesterà specialmente con gli sguardi. Jacek è puro ed onesto, è più forte della mentalità chiusa di quei fedeli che non credono nella medicina, poiché “fuori dal volere di Dio”. Egli guarda e ascolta l’essenzialità del Creato, e diventa, proprio come la donna all’inizio del film, testimone visibile dell’invisibile malattia che contamina la collettività. Malgorzata Szumowska costruisce un film potente, dotato di un’incredibile fotografia, monito pedagogico a saper accettare le diversità e le minoranze.
di Eugenio Sommella