Tutto chiede salvezza, la recensione della seconda stagione su Netflix

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Si dice spesso che quando si tocca il fondo, a quel punto, si possa solo risalire. Nessuno però aggiunge quanto sia faticoso il percorso, quante cadute e quanto ogni volta sia sempre più difficile rialzarsi, trovare il coraggio di chiedere aiuto, la forza di provarci ancora e ancora.

È la sfida che si è posta la seconda stagione di Tutto chiede salvezza (trailer), serie diretta da Francesco Bruni, tratta dall’omonimo romanzo autobiografico di Daniele Mencarelli. Sembrava difficile replicare il successo della prima parte, dove la novità del contenuto e della forma (il racconto di una settimana durante il Trattamento Sanitario Obbligatorio) avevano appassionato anche il pubblico più reticente: questo racconto, pur allontanandosi dal tracciato letterario, sembra invece ancora più viscerale, fa ancora più male.

Ritroviamo Daniele, interpretato da un magistrale e delicato Federico Cesari, due anni dopo il ricovero forzato al San Francesco. Ha ripreso a studiare, sta per laurearsi in Scienze Infermieristiche e ha ottenuto un tirocinio nella clinica dove la sua vita è cambiata. L’idillio con Nina (Fotinì Peluso), attrice ormai mamma e studentessa a tempo pieno, ha, invece, avuto vita breve: i due ragazzi si contendono l’affidamento della piccola Maria, nata dalla loro relazione. Apparentemente va tutto bene.

La lotta con la propria salute mentale assume, in questa stagione, i connotati di un’ombra, muta, ma con uno spettro totalizzante, che perseguita il protagonista. Fa capolino all’improvviso nonostante i teneri sorrisi della figlia, le piccole vittorie quotidiane sul lavoro, la promessa labile di una vita controllata dallo scandire delle medicine. Basta una parola fuori posto, un urlo, una notizia inaspettata. Per Daniele il passaggio da paziente a infermiere, dall’altra parte della barricata, quindi, rischia di essere più difficile del previsto. La sua profonda empatia non basta per aggrapparsi, saldo, con le mani ai bordi del precipizio: è costretto ad affacciarsi sul baratro e accettare un viaggio quasi dantesco nelle profondità del dolore, in tutte le sue forme, anche le più infide e nascoste. Anche a costo di ricadere nel proprio buio.

Ad accompagnarlo, come sfaccettature dello stesso devastante sentimento, i vecchi compagni di stanza, ognuno con una difficoltà diversa. Giorgio (Lorenzo Renzi), diventato dipendente della Villa, Gianluca (Vincenzo Crea), alle prese con le conseguenze di un amore che non può essere ricambiato, Madonnina (Vincenzo Nemolato) sospeso tra lo spazio e il tempo, così come Alessandro (Alessandro Pacioni).

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Nuovi tasselli del racconto, come Rashid (Samuel Di Napoli), che combatte con la crudeltà i pregiudizi e la difficoltà della vita in un altro paese, Paolo (Marco Todisco), genio incompreso affamato di affetto, Armando (Vittorio Viviani), che dipinge la solitudine della vecchiaia. E Matilde, che vede Drusilla Foer rappresentare il lato più difficile da accettare della malattia: il cinismo della nostalgia. E il dolore mascherato da odio vitale, che diventa un mostro insostenibile allo specchio, ma che nutre lo spirito e plasma il corpo alla cattiveria come un burattino. «È l’unica cosa che mi tiene in vita, quando smetterò di odiare morirò», dice lei stessa in un colloquio con il dottor Mancino (Filippo Nigro).

Il dolore sembra quindi sempre in agguato, non c’è modo di evitare il confronto: lo sa bene Angelica (Valentina Romani), costretta a fare i conti con il fantasma del padre Mario (Andrea Pennacchi) e a riscoprirlo, tramite gli occhi di Daniele, per cui è stato una guida. Il dolore fa cambiare prospettiva, i pazienti curano, genitori diventano figli, figli che fanno i genitori, proprio come nell’ancora problematico intreccio tra Nina e sua madre Giorgia, incapace di non proiettare il proprio egoismo nella quotidianità e nelle scelte della figlia (Carolina Crescentini).

Nulla, in questa serie, pare avere dei confini definiti, proprio come la percezione di Daniele, che si trova in un limbo, incapace di comprendere fino a che punto il vissuto degli altri si incastri con il proprio, cosa sia giusto o sbagliato, sano o malato. Una sospensione che vede come unica soluzione un urlo disperato all’ingiustizia. Tutto sembra sfocato, nulla si conosce per davvero e con certezza, l’amore non salva, ma complica l’animo umano, lo rende fragile e in balia di una costante instabilità, qualunque sia lo stato mentale. Quindi non si può respingere nulla: bisogna accogliere il dolore e le sue conseguenze, guardando oltre il proprio naso e cercandolo negli occhi degli altri.

Un ritratto preciso, straziante, ma soprattutto vicino delle ferite che possono insediarsi nelle vite di ognuno. Sta qui la forza di Tutto chiede salvezza: trasformare un argomento tabù della nostra società, la salute mentale, ancora oggetto di vergogna e incomprensione, in un’esperienza di com-passione. Un patire comune che permette di abbandonare i preconcetti e avvicinarsi, con rispetto e delicatezza, al labirinto della mente umana, da comprendere nella sua unicità. L’empatia come requisito necessario per convivere nel mondo.

E allora dove si può trovare salvezza? La risposta sembra vedersi nella semplicità delle piccole cose: una carezza di una bambina, ignara delle dinamiche del mondo, la gentilezza di un momento quotidiano come la rasatura, le poche parole di una poesia. E le persone, che ci circondano come un paracadute: come si diceva in La Heine di Kassovitz, «l’importante non è la caduta, ma l’atterraggio, fino a qui tutto bene».

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