Quello della recente pandemia è sicuramente uno tra i tanti fatidici momenti della nostra storia contemporanea in cui il dialogo inter-mediale – l’oceanica diffusione di informazioni da parte dei giornali di tutto il mondo, il boom dei grandi squali per la fruizione in streaming, il dilagare di speranze, contraddizioni e bufale sui più disparati networks e portable devices – è così sfiancante e, paradossalmente, confinante che al suo posto si dovrebbe dibattere a proposito di un’ossessione inter-mediale. Il nostro vagare senza meta nello sterminato deserto dei Big Data ci ha resi pistoleri dal carattere plastico, in cui non si distingue più la consistenza umana da quella tecnologica, perennemente a cavallo degli infidi metadati e in cerca di duelli per un pugno di share compulsivi. Uno scenario molto più simile al profetico Cowboys and Aliens (2011) di Jon Favreau che all’umanissimo Blade Runner (1982) di Ridley Scott. Eppure, nonostante questo nostro “farsi” pistoleri nell’universo mediale, siamo anche accaniti reporter, mossi dalla curiosità di far luce sulle dinamiche politico-sociali contemporanee. Tutti gli uomini del presidente (1976, Trailer) di Alan J. Pakula smuove questo nostro desiderio e diventa pagina scritta di un enorme rotocalco cinema-media che abbraccia circa cinquant’anni di cinema giornalistico (e non solo).
Per la storia americana, nonché per l’industria dello spettacolo, lo scandalo Watergate del 1972 (un gruppo di repubblicani si infiltra nella sede del Partito Democratico statunitense) è da considerarsi punto nevralgico da cui scaturiranno le rilevanti inchieste del Washington Post, il film della New Hollywood Tutti gli uomini del presidente e, con le opportune differenze, alcune opere recenti come The post (2017, Trailer) di Steven Spielberg e Vice – L’uomo nell’ombra (2018, Trailer) di Adam McKay. Tuttavia, se negli anni ’70 Pakula si scaglia criticamente contro il conservatorismo e la vigliaccheria di Richard Nixon, Spielberg e McKay, vari decenni dopo, riesploreranno il discorso politico-sociale allargandolo, il primo, all’inchiesta-1971 del Washington Post contro le menzogne del governo americano sulla Guerra del Vietnam e, il secondo, all’azione nascosta da parte di Dick Cheney in svariati momenti della Storia americana. I tre registi tracciano, ognuno con la propria voce, un sentiero epico dell’America passata, che arriva alla contemporaneità nel caso di McKay, e scrivono allo stesso tempo le pagine di un rotocalco cinema-media di ampio respiro che vede il Watergate come punto fondamentale.
Tutti gli uomini del presidente comincia proprio con l’evento del Watergate-1972, pezzo di una storia americana marcia e vile, e prende spirito grazie alla presa di posizione e all’azione di due coraggiosi giornalisti, Carl Bernstein (Dustin Hoffman) e Bob Woodward (Robert Redford). I fili dell’intricato apparato governativo americano si scioglieranno nel corso dell’indagine, dai tempi tanto dilatati quanto elegiaci, che impegnerà tutto il Washington Post e il direttore, inizialmente restio, Ben Brandlee (Jason Robards). Steven Spielberg con The Post, invece, risveglia il tema della libertà di stampa e ripercorre le indagini del Washington Post sul Vietnam, ma immette il tutto in un discorso che abbraccia anche una delle tematiche tanto care alla contemporaneità, ossia l’importanza della donna nel lavoro.
Nel film Meryl Streep interpreta Kay Graham, la neo-direttrice del famoso Giornale che sarà affiancata dall’onnipresente Ben Brandlee (questa volta interpretato da Tom Hanks). Adam McKay con Vice – L’uomo nell’ombra travalica ulteriormente quanto già esposto con La grande scommessa (2016), si serve del montaggio delle attrazioni di S. M. Ejzenstejn e costruisce un’intrigante discesa all’Inferno dove il Diavolo è Uomo. In questo caso, l’ingenuo e superficiale G.W. Bush (Sam Rockwell) abbocca all’esca del calmo e strategico Dick Cheney (Christian Bale) proprio come un pesciolino all’amo del pescatore.
The Post e Vice – L’uomo nell’ombra sono operazioni dalla portata documentaria e di testimonianza storica che ripercorrono il passato americano e si aggrappano al cinema giornalistico di Alan J. Pakula per chiarire quei meccanismi politico-economico-sociali contemporanei aventi una falla atroce nel fatidico Watergate-1972. Il film di Spielberg si conclude infatti con lo scandalo repubblicano e l’immagine di Nixon che giura vendetta contro il Washington Post, testimoniando così – senza assolutamente toccare quanto già profondamente trattato da Pakula – l’importanza che quel cinema giornalistico e di denuncia anni ’70 ha avuto e ha tutt’ora per il cinema contemporaneo. McKay provvede ad un’ellisse temporale che abbraccia il discorso di Pakula e appena lambisce lo scandalo Watergate (Cheney aprirà la tratta americana del petrolio con l’Arabia Saudita senza che i giornali se ne accorgano, come appunto è successo col Watergate), generando l’epopea dell’uomo nell’ombra. L’esito concertato è che questi tre film sono pagine scritte di un imponente rotocalco cinema-media che non risparmia l’America conservatrice e che sopravvive nel deserto sconfinato del Multimediale, aspettando che si ergano i reporter.