Philip Koch rilegge la storia contemporanea e prova a riscriverne l’epilogo nella nuova serie originale Netflix Tribes of Europa (trailer), raccontando un’Europa post-apocalittica nel 2074, immersa in un futuro che cerca di ricostruire e comprendere il passato dopo il misterioso blackout del 2029. Le nazioni non esistono più, l’Europa è ideologicamente e localmente divisa in tante tribù; alcune di queste, come quella degli Origini, decidono di rifugiarsi nella foresta e allontanarsi dalla civiltà tecnologizzata, poiché è stata proprio la tecnologia a causare la distruzione del vecchio mondo.
Liv, Kiano e Elja, figli di Jacob (Benjamin Sadler), il capo degli Origini, sono tre fratelli addestrati alla vita di sopravvivenza nella foresta, ma al contempo ricevono un’educazione basata sulla nobiltà d’animo; quando un velivolo si schianta nei pressi del rifugio, si offrono di aiutare un superstite ferito a bordo della navicella, che conserva un cubo dal potere sconosciuto. Proprio quest’ultimo oggetto, sapientemente utilizzato come Mac Guffin, attirerà l’attenzione dei Corvi, spietati guerrieri, la cui natura feroce spinge la Repubblica dei Crimson a lottare in una battaglia in cui la divisione tra bene e male sembra essere (all’apparenza) piuttosto netta, quasi inequivocabile. Gli ideali pacifisti di un ritorno alla “vecchia Europa” da una parte, le aspirazioni sovraniste di uno stato gerarchico dall’altra.
L’affascinante espediente del cubo-Mac Guffin riporta alla memoria la valigetta in Pulp Fiction, un oggetto misterioso, agognato da tutti, il cui potere, però, non viene mai svelato: l’importanza del contenuto è relativa per quanto riguarda la progressione drammatica, ciò che conta è la minaccia che l’oggetto rappresenta.
Già dal primo episodio si delineano tutti i plot della narrazione, tanto che l’iniziale curiosità dello spettatore per l’accurato world building cede il passo alla volontà di fermarsi e conoscere meglio questi personaggi, figli di un’epoca estranea. Ma questo, nel corso dei sei episodi, succede solo di rado. L’incalzante ritmicità narrativa, da un lato riesce a tenere incollato allo schermo lo spettatore, dall’altro sembra volersi liberare frettolosamente di tutti i momenti in grado di offrire spunti emotivi, rendendo sempre più difficile l’approfondimento dei caratteri.
La scarsa cura verso la componente emotiva è rispecchiata dalla mancanza di un vero protagonista. Il prologo in voice over di Liv (Henriette Confurius) lascia presupporre che sia lei il personaggio principale, ma la supposizione viene smentita dalla scelta della sceneggiatura di seguire tre linee d’azione diverse, una per ognuno dei tre fratelli, senza però abbracciarne davvero nessuna. Lo sviluppo drammaturgico rimane costantemente legato a un’idea di coralità (narrativa e ideologica) per cui è difficile cogliere al meglio le relazioni tra i personaggi, descritte solo parzialmente.
L’affresco di una famiglia tutto sommato felice e unita, con tanto di slogan sentimentalisti (forse troppo) con cui inizia la prima sequenza della serie, aiuta sicuramente a capire quanto sia alta la posta in gioco per Liv e i suoi fratelli nel momento in cui si sviluppa la vicenda; ma questo non basta a dare loro una caratterizzazione che elevi l’apparato emotivo al pari di quello narrativo.
Eppure i buoni propositi, in tal senso, non mancano: la conoscenza di Moses (Oliver Masucci) è una ventata d’aria fresca, che fa sperare (invano) lo spettatore di poter abbandonare per un attimo le linee action, per osservare e ascoltare l’unica voce fuori dal coro. Difficilmente collocabile tra i “buoni” o i “cattivi”, il codice morale di Moses non è così rigido come quello dei Crimson o dei Corvi e il suo linguaggio è fatto di gesti semplici e desideri terreni, lontani dagli ideali e dal sentimentalismo degli Origini. Moses è un cane sciolto che agisce sempre seguendo l’istinto: la sua visione bambinesca nei confronti della vita lo porta spesso a esporsi al pericolo e a farsi più di qualche nemico, ma è anche ciò che lo contraddistingue dagli altri come l’unico personaggio con una marcata stilizzazione comica.
Se i protagonisti, quelli schierati dalla parte di un’ipotetica fazione onesta, appaiono spesso generici, gli antagonisti invece sono davvero perfidi, personalità ben scritte in fase di sceneggiatura (“più riuscito è il cattivo più riuscito è il film”, affermava il maestro Hitchcock), a cominciare dalla simbologia nella cultura occidentale dell’animale a cui sono legati: il corvo, avvolto da un alone di oscurità e mistero, richiama l’immagine della morte e dei corpi senza vita. Così, anche in Tribes of Europa i Corvi provano un’eccitazione verso la morte e tutto ciò che la riguarda, ripudiano qualsiasi forma di debolezza e compassione verso l’altro, ma hanno anche una sorta di etica comportamentale da seguire. E allora è così che la lotta tra il bene e il male assume i connotati di uno scontro ideologico tra codici morali diversi, che chiariscono l’obiettivo principale della serie: invitare lo spettatore a schierarsi.
Tribes of Europa è il riflesso dello spirito di osservazione del suo creatore, Philip Koch, che oltre ad attuare una riscrittura distopica della storia attuale, inserisce tanti, troppi riferimenti verso racconti post-apocalittici e fantascientifici già visti nell’universo della serialità. Per questo la serie, pur gettando le basi per una seconda stagione, manca di quell’identità concettuale in grado di darle una maggiore riconoscibilità tra le tante storie già scritte di mondi distopici.