Tick, tick, tick, tick… ma poi il boom, quando arriva? Tra le numerose domande che Jonathan Larson – protagonista di Tick, tick… boom! (qui il trailer) – lascia senza risposta, si potrebbe sicuramente annotare anche questa domanda. Infatti, nonostante i diversi aspetti positivi, sicuramente il musical disponibile su Netflix rimane un’esaltazione senza un’esplosione, come quando apri lo champagne e il tappo non salta in aria, lasciandoti amareggiato ad osservare il vuoto.
Siamo nel 1990. Lo schermo è un classico 4:3 tipico delle vecchie videocamere, con una grana che rispetta gli standard dell’epoca e all’interno del quale sono inglobati anche i loghi di Netflix e dell’Imagine Entertainment production. Quasi come in una stand up comedy, entra in scena Andrew Garfield (The Eyes of Tammy Faye). L’obiettivo fatica a metterlo subito a fuoco (d’altronde il suo è un personaggio che il film non pretende assolutamente di mettere a fuoco, riconoscendone l’impossibilità). Si presenta, è Jon (Jonathan Larson) ed è un drammaturgo di musical teatrali. Così la mano delicata di Lin–Manuel Miranda (compositore teatrale per Hamilton e cinematografico per Oceania, per cui ha ricevuto la candidatura all’Oscar, e per Encanto) dà avvio al suo racconto, mettendo in campo, fin da subito, numerosi elementi (registici e di scrittura) raffinati e coinvolgenti, che, però, rischiano di rimanere fini a se stessi.
La storia, esattamente come per l’omonimo musical di riferimento, è quella di Jon che, alla soglia dei trent’anni, cerca un modo di farsi produrre il suo musical Superbia, su cui lavora da anni. Se l’opera di partenza presenta dei germi autobiografici, questi vengono subito esplicitati dal film, tramite proprio il formato in 4:3 iniziale. Tale gioco, viene portato avanti lungo la visione, ma solo a livello di forma e non di contenuto. Lo stile retrò non serve più a mostrare lo scacco tra l’opera in sé e la vita del compositore, ma solo per evidenziare determinati passaggi narrativi. Così facendo si mette sullo schermo una scelta registica elegante ed elaborata, ma svuotata di significato, come quelle bellissime torte americane, che alla fine sanno solo di burro. Ciò non si riflette unicamente nell’intessitura tra i vari formati, ma proprio nell’intera struttura del film stesso.
Rimodulando lo stile esuberante e poliedrico del compositore e premio Pulitzer newyorkese, Lin-Manuel Miranda alterna riprese esterne a momenti d’interiorità, in cui inquadra da vicino un personaggio volontariamente (ed intelligentemente) non messo a fuoco, a fine di permettere una più ampia immedesimazione. Quando Jon tocca le corde di argomenti profondamente emotivi, il pubblico viene proiettato dentro la mente del giovane protagonista, assistendo a un privato e istrionico, ma anche profondo, show in stile stand up. L’esempio più significativo si ha quando Jon rimette in scena i suoi problemi di coppia, estremizzando il disagio tramite una narrazione al limite dell’assurdo e che ricalca gli spettacoli dei ventriloqui.
Se il film prende vita ed esalta i propri spettatori proprio grazie a queste “chicche”, ancora una volta, però, il risultato finale risente di un rumoroso contraccolpo. Infatti, si ha la continua idea che il film apra parentesi interessanti, che lascia però slegate e in un aleatorio limbo, come proprio la metafora iniziale del “tick, tick” assordante, dimenticata e ripresa bruscamente e senza un adeguato pay off solo a metà del film. Ciò crea problemi stilistici di ritmo che levano linfa alla genialità presente in quest’opera prima, rischiando di trasformarla in un buonissimo stufato dal retrogusto, però, leggermente stantio. Rischiando di rimanere un musical che emoziona in una giornata piovosa sul divano, ma che non sembra aggiungere nulla di più a un discorso (quello dell’ansia di non concludere nulla e di sentirsi in un eterno paragone con gli altri) forse anche trito e ritrito.
Insomma, Tick, tick… boom! è un film dai numerosi lati positivi: a partire da alcune idee per la messinscena, fino ad arrivare al modo impeccabile in cui sono gestite le bellissime musiche e all’interpretazione magistrale di Andrew Garfield, che sembra essersi mimeticamente cucito la parte addosso. Il problema, probabilmente dato da una regia ancora alle prime armi, è che Lin-Manuel Miranda pone fin da subito una premessa entusiasmante, che invece di arrivare a un boom esplosivo, implode su se stessa, lasciando l’amaro in bocca a una parte di pubblico che percepisce il potenziale di un’opera che poteva decisamente aspirare a un qualcosa di più.